«La forza necessaria per superare gli ostacoli è nascosta dentro di noi, ma bisogna sempre esercitarsi a superare i propri limiti» Daniele Cassioli, l’atleta cieco dalla nascita, considerato il più grande sciatore nautico paralimpico di sempre, quando racconta come si diventa campioni del mondo, non ha dubbi e trasmette un energia ed una positività autentica, guadagnata a piccoli passi, nel buio, attraverso forza di volontà, determinazione e coraggio. Oggi volare sull’acqua come un aquilone è il suo mestiere, contro ogni pronostico, uno strumento di riscatto ed insieme anche una prova costante verso se stesso, che lo ha portato a vincere ventincinque medaglie d’oro ai campinati mondiali ottenendo recentemente in Norvegia tre ori e due argenti, nonostante una costola incrinata a causa di un infortunio. Ma non è tutto, oltre ad aver pubblicato un libro per De Agostini intitolato “Il vento contro“, dove racconta le esperienze, le sensazioni e le difficoltà della sua vita, Daniele sviluppa per aziende e multinazionali come Vodafone, Bosch e Hellman percorsi di team building che partono dal racconto del suo percorso personale di sportivo ed arrivano ad azioni concrete, utili per veicolare valori come l’orientamento alla collaborazione, alla comunicazione, e alla condivisione di obiettivi. Noi di Domanipress abbiamo avuto il piacere di ospitare nel nostro salotto virtuale Daniele Cassioli e di parlare con lui di sport e di valori umani da coltivare fidandosi di se stessi e degli altri.

Con oltre venticinque medaglie d’oro sei considerato il più grande sciatore nautico paralimpico di tutti i tempi detenendo il record mondiale nella specialità del salto. Quando hai scoperto la passione per questo sport?

«Ho sempre avuto interesse per lo sport in generale, pensa che sin dalla tenera età di tre anni ho praticato nuoto…Ho sempre avuto una grande energia e non riuscivo mai a star fermo. Lo sci nautico ho imparato a conoscerlo a livello ludico, nel salotto di casa, indossando gli sci e scivolando sul tappeto, immaginavo di poter correre veloce sul pelo dell’acqua con le ali sotto piedi. Quando ho capito che volevo praticare lo sci nautico realmente ho avuto l’occasione di incontrare un gruppo di atleti paralimpici e, a nove anni sul lago di Como, ho iniziato a muovere i primi passi in questa attività sportiva ed è stata una vera folgorazione, era ciò che volevo fare da grande…mi sembrava di volare ed ero felice».

La tua condizione di ipovedente ti ha portato a scontarti con impedimenti importanti e come se non bastasse quest’anno, ai mondiali in Norvegia di fine luglio, hai avuto la forza di gareggiare con una costola incrinata vincendo con ostinazione e impegno tre ori e due argenti…Come sei riuscito ad affrontare tutte queste difficoltà?

«Credo che sia tutta una questione di approccio alla vita. Le difficoltà le ho sempre vissute come sfide da superare. La mia condizione di ipovedente mi impone di vivere concentrandomi sulle capacità residue invece che su quelle che ho perso. Quando si subisce un infortunio la prima cosa da fare ovviamente è curarlo a livello medico, con i farmaci, ma non si deve trascurare anche la natura psicologica…è necessario esercitarsi a non dare peso al dolore, non bisogna pensarci troppo. In questi casi può tornare utile considerare l’incidente come un avversario che ti pone davanti ad una competizione. Bisogna sempre concentrarsi su ciò che si ha in quel preciso momento e mai su quello che si è perso».

La tecnologia oggi aiuta molto la condizione di chi ha una disabilità visiva…Qual è il tuo rapporto con questi ausili?

«I presidi tecnologici, per chi non possiede il senso visivo, assumono un ruolo decisivo, fortunatamente negli anni sono stati compiuti diversi passi avanti in questo settore che è sempre in constante evoluzione. Personalmente, non posso fare a meno dello smartphone con la sintesi vocale, della tastiera Braille ed anche di alcune applicazioni che connettono gruppi di ipovedenti. La tecnologia sicuramente ci aiuta ma è importante capire che non dobbiamo mai sostituirla al percorso di crescita personale, che chi ha delle difficoltà visive è chiamato inevitabilmente a fare. C’è però un altro lato della medaglia: l’utilizzo di questi nuovi strumenti spesso può portare a chi ha un handicap ad isolarsi rispetto al mondo, a non praticare sport e a rinchiudersi dentro se stesso. Il progresso tecnologico è utile ma bisogna continuare anche ad alimentare la sfera emotiva, umana e sociale».

In un intervento per la conferenza TEDX Talks hai parlato del tema della fiducia verso gli altri e verso se stessi. Oggi si assiste ad un atteggiamento di sfiducia generalizzato…Quali sono le cause che ci hanno portato ad essere così diffidenti?

«Sono molte le componenti che hanno generato sfiducia nel genere umano, costituite da tanti processi concatenati derivanti dalla complessità del nostro tempo. Lo smartphone ed internet ci fanno credere di riuscire a conoscere tutto lo scibile umano…Sembra quasi che non ci sia più bisogno di un esperto perché è come se non ci fosse nessuno che è realmente più preparato di una nostra ricerca su Google. Bastano pochi secondi per avere l’illusione di sapere tutto con pochi click. Questo ci rende supponenti e ci da l’illusione di non aver bisogno di nessuno. A questo bisogna associare un malessere dovuto al momento storico di recessione economica che stiamo vivendo, che passa inevitabilmente da una sfiducia nelle istituzioni e da chi è gerarchicamente al di sopra di noi. Se il profitto di un’azienda è in positivo c’è statisticamente più possibilità che il dirigente si fidi maggiormente dei suoi dipendenti e viceversa. Siamo tutti chiusi dentro le nostre mura perché abbiamo paura, la fiducia invece è un’arma potentissima che ci permette di vivere i rapporti in maniera più profonda vera e costruttiva e che spesso esercitiamo senza accorgercene quando saliamo su un autobus guidato da un autista, quando andiamo al ristorante e consumiamo cibi preparati da altri che non conosciamo, oppure quando acquistiamo un bene prodotto da un azienda. In questo caso ci fidiamo di un marchio e dei suoi valori».

Per un ipovedente fidarsi è un’attitudine necessaria…

«Si, per chi non vede fidarsi è utile per svolgere tutte le attività quotidiane, anche quelle banali, come vestirsi o controllare la data di scadenza dell’hamburger nel frigo. Nello sci nautico io mi fido tutti i giorni quando salto l’ostacolo e la guida che mi accompagna mi avverte del’ostacolo imminente…Se non avessi imparato a fidarmi questa situazione non avrei mai potuto viverla. Nella cecità la necessità di fidarsi è ancora più evidente, ma se ci pensi è una condizione che appartiene a tutti. Lo sport ce lo insegna, anche in quelli più individuali, è la squadra che fa la differenza…».

Recentemente hai scritto una lettera allo “sport” così come si fa con un amico. L’attività agonistica può essere utile per imparare a fidarsi di se stessi?

«Si, per me lo è stato perché è grazie a lui che ho imparato ad accettarmi, nella lettera scrivo: “Caro sport non ti ho detto che sono cieco dalla nascita e una delle più profonde crisi che ebbi da piccolo fu perché non potevo giocare a pallone con i miei amici. Da subito mi hai messo di fronte a ciò che sono: senza pregiudizi, senza impedirmi di conoscerti“. Lo sport è anche educativo perché ti insegna come l’impegno costante possa portare ad un risultato concreto, le medaglie non si comprano su internet e non si giocano sui social network. Inoltre c’è una sana componete sociale, nello sport, è imprescindibile la componente umana di un gruppo di persone che si impegnano per raggiungere l’obiettivo comune. Oltre a questo, essere impegnati in un’attività sportiva, aiuta a staccare dalla routine automatica costituita dalla sovraesposizione di informazioni che ci bombardano ogni giorno. Quando ci si allena si deve staccare la mente da tutto e dedicarsi solo a quello. Dico spesso che dallo sport ho imparato che possiamo fare ciò che desideriamo, perché lo sport può diventare quel pezzo di strada che c’è tra noi e la felicità».

Recentemente hai pubblicato un libro intitolato “Il vento contro” in cui racconti la tua storia fatta di allenamenti, sudore, cadute e trionfi. In un capitolo del libro trova spazio il racconto del periodo scolastico, quando alcuni tuoi compagni ti perdevano in giro per il rumore della tua macchina dattilobraille, sono pagine di rabbia e di voglia di riscatto…Il bullismo è un fenomeno molto diffuso tra gli adolescenti; come si supera?

«Provare rabbia verso qualcuno significa dargli un’ importanza che non merita. Non è facile arrivare a superare questo tipo di disagio, l’ho capito negli anni, con un percorso personale che mi ha portato a pensare che mettere al centro dei miei pensieri chi mi denigrava era un modo sbagliato di sprecare tempo ed energia. Ho cercato di convertire il sentimento negativo sublimandolo e trasformandolo nella forza per affrontare la vita, dedicandomi a chi mi vuole bene e ai rapporti interpersonali positivi. Sopratutto quando si è molto giovani, è facile subire bullismo, anche a scuola. L’unica arma per superare questi problemi è ignorare chi deride coltivando le relazioni personali, parlando con gli altri e lasciando scivolare fuori la negatività senza avere paura di chiedere aiuto».

Oggi oltre ad essere un atleta di successo sei anche un formatore aziendale che sviluppa percorsi di team building realizzati per incentivare lo sviluppo collaborativo con strategie di squadra in grado di sfruttare qualità utili per il raggiungimento degli obiettivi

«In queste giornate c’è sempre una forte componente emotiva, quando si emoziona una persona, automaticamente la si predispone all’ascolto, innescando un cambiamento positivo. Come coach cerco di portare il gruppo di lavoro difronte alle mie difficoltà, spogliandomi dalle vesti del campione paralimpico, rispettando e riconoscendo le difficoltà degli altri. Tendo ad evitare l’equivoco secondo il quale la mia condizione di ipovedente mi pone ad avere delle difficoltà maggiori rispetto a quelle di un dipendente di un’azienda, ogni difficoltà è importante dentro di noi nel momento in cui facciamo fatica a gestirla. Durante gli incontri organizzo delle attività “al buio” bendando i partecipanti, per dimostrare che quando ci sente tutti nella stessa difficoltà, automaticamente per un meccanismo umano di mutuo soccorso, diventiamo straordinariamente bravi nel far squadra. Il buio è un limite importante che porta a chi normalmente può utilizzare il senso visivo a percepire delle risorse che difficilmente riuscirebbe ad invidiare nella vita quotidiana. Tutto è finalizzato a dare una chiave di lettura differente ai nostri problemi ed anche all’accettazione di se stessi. Spesso la prima causa che porta un individuo a non essere efficace sul lavoro è proprio quello di non riuscire ad accettare se stesso».

Cosa accade durante queste esercitazioni?

«Molti si lasciando andare all’emotività, i ruoli si sovvertono, si annullano e si crea un momento forte di energia condivisa, il lavoro di squadra è fondamentale per un team. Io sono il primo che vive questo momento di tacita connessione ed anche per me è sempre un esperienza emozionante e nuova. Quando si riesce a riportare tutto sul lato umano cambiano anche gli approcci interpersonali all’interno di un azienda. Per una cattiva abitudine siamo tutti portati a ragionare per slogan e a definirci per i ruoli che rivestiamo. Il capo struttura di un reparto, ad esempio, è sempre percepito inconsciamente come il mostro da aggirare…Questo meccanismo parte dalla mancata comunicazione che avviene in maniera automatica; l’attività di team building aumenta il livello di fiducia e motiva il gruppo di lavoro a creare coesione ed integrazione educando anche alla delega ed al raggiungimento degli obiettivi, sviluppando doti come l’empatia e l’ascolto. Con questo tipo di attività si diventa tutti un po’ più umani…Queste giornate a detta di molti manager, sono uno dei più importanti investimenti che si possano fare all’interno di un azienda».

A proposito di obiettivi nel tuo libro si legge la frase: “L’importante è non perdere mai di vista l’obiettivo finale“. Dopo aver raggiunto traguardi importanti nella vita e nello sport, qual è il tuo obiettivo personale?

«Il bello della vita è che l’obiettivo finale non è mai qualcosa di definitivo e rimane tale finché non lo raggiungi. Io ho cambiato diversi obiettivi, ho un passato da fisioterapista ed adesso faccio il formatore aziendale, ho scritto un libro, sono impegnato nelle gare, sono molto concentrato sullo sci nautico ed ho un’associazione con cui portiamo i ragazzi con le disabilità visive ad avvicinarsi allo sport».

Come ultima domanda parafrasiamo sempre il titolo del nostro magazine e chiediamo come vede il “Domani” Daniele Cassioli, quali sono le tue speranze e le tue paure?

«Io vedo un Domani luminoso, nonostante non possa vedere; sono convinto che la costruzione del futuro parta dalle persone che siamo oggi. Per poter costruire il Domani è necessario essere tutti più uniti e pensare insieme ad un obiettivo comune, quello del benessere collettivo che parte dalla cultura e dalla gioia di stare insieme».

Intervista Esclusiva a cura di Simone Intermite

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