«Sono solo un padre che ha perso tutto e che prova a fare in modo che quel tutto non sia stato vano.»
Con questa frase pronunciata senza retorica e con voce ferma, Gino Cecchettin ha trasformato un lutto privato in un impegno pubblico. Da quel tragico novembre 2023, quando sua figlia Giulia è stata uccisa dall’ex fidanzato,Filippo Turetta il suo nome è diventato un simbolo: della rabbia, della consapevolezza e della speranza di un Paese che non può più permettersi di voltarsi dall’altra parte.
A distanza di pochi mesi, Gino ha dato vita alla Fondazione Giulia Cecchettin, con l’obiettivo di promuovere un’educazione sentimentale che parta dalle scuole e arrivi dritta al cuore di una società ancora troppo segnata da stereotipi tossici e silenzi complici. Perché, come ama ripetere, «il cambiamento non può più aspettare».
Nel suo libro, “Cara Giulia” (Rizzoli), una lunga lettera d’amore e memoria scritta alla figlia, Gino parla di lei come si parla di una persona viva: racconta le sue passioni, la sua ironia, i suoi sogni mai spenti. Ma tra le righe, denuncia anche una cultura che ha reso possibile quel gesto estremo. Ed è proprio grazie a voci come la sua se oggi, anche nei vocabolari ufficiali, è stata riconosciuta e definita una parola che fino a pochi anni fa non esisteva: femminicidio.
In questa Video Intervista esclusiva nel Salotto di Domanipress, Gino Cecchettin ci parla del dolore che si fa azione, della sua nuova vita spesa per il cambiamento e del futuro che immagina per tutte le figlie d’Italia. Lottando anche per quelle che, come Giulia, oggi non possono più parlare. Nello spazio del nostro salotto digitale, senza la solita cornice colorata delle luci o della musica oggi c’è spazio per qualcosa di più raro: la verità. È la verità di un uomo che ha affrontato la perdita più indicibile, quella di una figlia, e che ha scelto di trasformare un dolore privato in un impegno pubblico
Gino, partiamo da Giulia. In tre parole, chi era?
«Giulia era una ragazzs sensibile, altruista e generosa. Tre aggettivi che non ho scelto per caso: ognuno di questi ha una storia, un momento, un gesto che lo conferma. Era quella persona che, anche senza parlare, capiva subito se qualcosa non andava. Ti guardava e sapeva. Aveva questa capacità naturale di avvicinarsi con dolcezza e alleviare il peso che portavi dentro. Era curativa, sì. Ti lasciava emozioni buone, ti liberava dallo stress. Questo me lo dicono tutti quelli che l’hanno conosciuta. E se oggi, a distanza di mesi, il suo volto è ancora impresso nella memoria collettiva, è proprio per quella luce che emanava in vita.»
Oggi, a distanza di mesi, il suo volto è ancora ovunque. Cosa significa per te tutto questo?
«Significa che quella luce che emanava non si è spenta. È rimasta viva nelle persone, nei loro gesti, nei pensieri che le dedicano. In certi momenti mi sembra quasi che sia diventata parte dell’aria che respiriamo. È come se ci stesse insegnando qualcosa anche adesso, con la sua assenza.»
Nel libro “Cara Giulia”, racconti il suo mondo con una voce sincera e diretta. Com’è stato scriverlo?
«È stato, paradossalmente, naturale. Non ho dovuto inventare nulla. Era tutto lì: ricordi autentici, pezzi di una vita vissuta. Io ho soltanto avuto il compito di ricordarli e, insieme a Marco Franzoso, metterli nero su bianco. È un libro che nasce dal cuore, in un certo senso è uscito da solo. Non mi sento scrittore, non lo sono. Ma avevo qualcosa da dire, e quando senti l’urgenza di comunicare, le parole arrivano. Raccontare Giulia è stato come viverla ancora per un po’, e permettere agli altri di conoscerla per ciò che era, non solo per ciò che è accaduto.»
Quando hai capito che quelle parole potevano servire anche agli altri, oltre che a te stesso?
«L’ho intuito subito, in realtà. Prima ancora del libro. Dopo il discorso di Elena, mia figlia, ho visto un’onda montare: sit-in, veglie, momenti di riflessione collettiva. Un’Italia che si fermava a pensare. Ho capito che c’era bisogno di andare oltre il dolore, di trasformarlo. Io ho soltanto aggiunto la mia voce a un movimento che era già in cammino. Quando scrivevo, sapevo che non stavo solo ricordando Giulia, ma contribuendo a mantenere viva una conversazione importante, necessaria.»
E la parola “femminicidio”, che prima era così rara nel dibattito quotidiano, ha finalmente iniziato a risuonare con forza.
«Sì, è successo qualcosa. I fatti di cronaca purtroppo non sono nuovi, ma in questo caso la parola “femminicidio” ha superato la soglia dell’indifferenza. È entrata nei discorsi, nelle scuole, persino nei progetti di legge. Non è la prima volta che se ne parla, è vero. Ma oggi se ne parla con più coscienza. Abbiamo dato forza a un percorso che esisteva, ma che aveva bisogno di essere rafforzato, sostenuto da esempi concreti e da un linguaggio nuovo.»
“Cara Giulia” è anche un appello, un invito. A chi è rivolto?
«A tutti. Ma soprattutto ai padri, ai ragazzi, agli educatori. A chi pensa che l’amore sia possesso. A chi ha confuso il controllo con la cura. È una lettera, ma anche un grido silenzioso. Un modo per dire: fermiamoci. Guardiamo in faccia ciò che siamo diventati. E cambiamolo.»
Da uomo, hai confessato che prima percepivi certe notizie come lontane. Ora hai una consapevolezza diversa. Come si passa da spettatore a testimone attivo?
«Succede quando capisci che nessuno è davvero al sicuro. Io credevo che certe tragedie accadessero agli altri, a chi vive in mondi diversi dal mio. Oggi so che non esiste un “altro”. E allora ti rendi conto che bisogna agire. Non possiamo limitarci a leggere e dimenticare. Per questo credo che la sensibilizzazione sia fondamentale, a ogni età e in ogni contesto. Ma il vero cambiamento lo vedremo solo se cominciamo a educare le nuove generazioni a un altro tipo di relazione, in cui non esistano più il possesso, il sessismo, la prevaricazione. Relazioni sane, rispettose. Questo è il cuore della nostra Fondazione.»
Hai parlato di linguaggio, di quanto le parole possano diventare trappole, stereotipi mascherati da affetto. “Sei mia”, “ti amo da morire”: perché è così importante rieducarci anche nel parlare?
«Perché il linguaggio crea la realtà. Non è una questione di forma, è sostanza. Dire “sei mia” non è romantico, è già una forma di possesso. Lo stesso vale per certi modi di esprimere l’amore: “ti amo da morire” suona poetico, ma dietro c’è un’idea tossica di relazione. Gli stereotipi di genere nascono da lì, e se non li scardiniamo a partire dalle parole, continueranno a ripetersi. L’educazione all’affettività che proponiamo mira proprio a questo: a insegnare un modo nuovo di stare in relazione, con sé stessi e con gli altri.»
Anche nel mondo della musica, specialmente in certi brani rap, il linguaggio spesso veicola immagini sessiste o violente. Come affrontate questo tema con la Fondazione?
«È un nodo delicato. Di recente siamo stati charity partner di un evento musicale importante, dove erano presenti anche rapper con testi problematici. Ci siamo interrogati se fosse giusto esserci. Alla fine, abbiamo deciso di restare. Perché se vogliamo parlare ai giovani, dobbiamo stare dove loro sono. E allora abbiamo lanciato un messaggio chiaro: non si tratta di censura, ma di consapevolezza. La musica può educare o diseducare. Io vengo dal rock degli anni ’70 e ’80, anche lì c’erano testi controversi, ma oggi si nota una deriva diversa: l’enfasi sulla violenza, l’oggettificazione della donna. Serve una riflessione collettiva. E la Fondazione vuole essere parte attiva di questo dialogo.»
Hai proposto di introdurre l’educazione all’affettività nelle scuole. Da dove nasce questa idea?
«Dal buon senso. Io sono un tecnico, un elettronico. E come ogni tecnico, cerco la causa dei problemi. Con il nostro comitato scientifico, composto da docenti universitari, abbiamo capito che uno degli strumenti più efficaci per prevenire la violenza è proprio insegnare a costruire relazioni sane. Se in famiglia manca questo tipo di educazione, almeno la scuola dovrebbe offrire un richiamo. Un’ora a settimana per riflettere sull’affettività, sul rispetto, sull’ascolto reciproco. Sarebbe un piccolo grande passo.»
Torno a una domanda iniziale: come si fa a non farsi travolgere dalla rabbia, dall’odio, dal desiderio di vendetta?
«Ci si arriva per gradi, ma è una scelta. E anche un atto di sopravvivenza. La rabbia e l’odio ti consumano, ti annientano. Io ho scelto di non farmi divorare da quei sentimenti per amore degli altri miei figli, Elena e Davide. Loro hanno ancora una vita davanti, e io devo esserci. Ho deciso di coltivare ciò che di buono potevo salvare. È una lezione che mi arriva anche dalla mia educazione cristiana, da quei valori che ci insegnano a non fare agli altri ciò che non vorremmo subire. Sembrano principi semplici, ma quando li applichi davvero, ti accorgi di quanto siano rivoluzionari. Il dolore resta, certo. È una compagnia che non se ne va. Ma si può imparare a conviverci. Con l’odio no.»
Hai ricevuto anche una telefonata dal Papa. Un momento speciale. Che effetto ti ha fatto?
«Molto più di quanto mi aspettassi. Non sono credente, ma sentire quella voce è stato toccante. Era la voce di una comunità immensa, unita da un senso di sostegno e compassione. Papa Francesco ha una sensibilità rara, fuori dagli schemi. È stato un momento di conforto. Una carezza ricevuta in un momento di buio totale.»
Come ultima domanda, parafrasiamo sempre il titolo del nostro magazine e chiediamo: come vede il “Domani” Gino Cecchettin quali sono le sue speranze e le sue paure?
«Lo immagino più consapevole. Vorrei un Domani in cui le relazioni siano più autentiche, più rispettose. Un domani dove la parola “femminicidio” non serva più, perché non ci saranno più i fatti che la giustificano. Ma questo dipende da noi, da ciò che scegliamo di fare oggi. E io penso che continuerò a camminare per sempre, con la voce di Giulia nel cuore e lo sguardo rivolto avanti.»
Intervista esclusiva a cura di Simone Intermite