Recensione “Sweet Tooth”: Da un grande fumetto ad una serie televisiva per Netflix non sempre il passo è breve

Non è la prima volta che Netflix si cimenta nella trasposizione da fumetto a Serie e finora è più o meno riuscito a stupire il suo pubblico con prodotti che, perlomeno, hanno saputo sfruttare il potenziale del materiale cui prendono ispirazione. Ora è la volta di “Sweet Tooth”: serie ispirata dall’omonimo fumetto firmato Jeff Lemire e prodotta da Robert Downey Jr. che ha fatto il suo debutto su Netflix il 4 Giugno di quest’anno.

Qual’è la premessa? L’umanità è stata decimata da un virus misterioso e il mondo è sprofondato nel caos e l’anarchia. Contemporaneamente, in tutto il mondo hanno iniziato a nascere bambini con tratti animali, chiamati “ibridi”, i quali sono immuni al virus letale. Di conseguenza, gli ibridi vengono associati al virus e per questo perseguitati (c’è di più, ovviamente, ma questo è quello che ci viene svelato nei primi dieci minuti della prima puntata). Vediamo poi un uomo portare con sé un bambino (Gus, il protagonista) ibrido, con orecchie e corna da cervo, e rifugiarsi nel bosco del parco di Yellowstone dove spera di trovare rifugio dalla violenza del mondo di fuori.
Passano circa dieci anni, il nostro Gus cresce al riparo dal mondo esterno e, naturalmente, verrà il momento di lasciare il “nido” e avventurarsi nel mondo esterno.

Adesso fermiamoci un attimo ad osservare il tema di questa serie e come ci viene spiegato. Fin da subito è chiaro: l’Essere Umano (moderno e tecnologico) è cattivo e Madre Natura (e tutto ciò che rappresenta o chiunque gli si accosti) è vittima della sua ignoranza e insensibilità. Ora, questo è un tema interessante ma in Sweet Tooth non viene “esplorato” ma spiegato. Fin dalla prima puntata e senza smettere per tutta la stagione, i personaggi e la voce narrante (didascalica e superflua) coglieranno ogni occasione per partire a razzo con monologhi espositivi tutti incentrati sullo stesso argomento: Uomo Cattivo, Madre Natura Buona. Sweet Tooth sembra avere come massima priorità di farci sentire in colpa per il fatto di possedere uno smartphone e vivere in città. Era chiaro fin dall’inizio, con la città in fiamme e Gus e suo padre che si rifugiano nel bosco, ma andando avanti così per otto puntate è terribilmente pedante. Questa è la prima cosa che mi è rimasta dopo aver finito di vedere Sweet Tooth. Và bene, ho capito, farò più attenzione alla raccolta differenziata, grazie mille, ma dopo un po’ diamoci un taglio con le ramanzine.

Passiamo oltre, evitando spoiler il più possibile, Gus si ritrova a intraprendere un viaggio in questa America post-apocalittica in compagnia di Jasper, un sopravvissuto dall’indole solitaria e con un passato oscuro. Ma questa non sarà l’unica storia che seguiremo: puntata dopo puntata veniamo introdotti a una serie di personaggi che praticamente non interagiranno tra di loro o con i due protagonisti se non nell’ultima puntata. Questa scelta è controproducente per la narrativa della serie perché la forza di un personaggio come Gus è la possibilità di esplorare questo nuovo mondo dalla nostra stessa prospettiva (noi, in quanto pubblico). E questo sembra essere il punto di forza della serie, allora perchè una scelta del genere? Non si sa. Domanda: tutte queste storie parallele servono in qualche modo a rafforzare la trama principale? Risposta: no. L’arco di trasformazione dei personaggi è quantomeno inesistente. Serve solo a delineare dei personaggi (cosa che di solito si fa nelle prime puntate ma in Sweet Tooth lo fa per tutta la stagione) che poi non vediamo influire nella storia principale.

Un altra cosa da dire è che Sweet Tooth è una serie dove i personaggi sono protetti da quella che in inglese viene definita “plot armour” (“Armatura di Trama” N.d.t.) ovvero: nonostante le calamità o le difficoltà cui i nostri protagonisti si trovano a far fronte ci sarà sempre un escamotage narrativo pronto a salvarli per il rotto della cuffia. Le “coincidenze” che portano Gus, Jasper e il resto dei personaggi fino all’ottava puntata sono al limite. A metà della serie ogni tensione scade miseramente perché è fin troppo scontato che, nonostante tutto, si salveranno in ogni caso. Ci sono vari trucchi in sceneggiatura per nascondere questi fattori, ma Sweet Tooth li manca tutti. I personaggi non sono mai veramente in pericolo.
Vorrei mettere in luce i due punti della serie che fanno scadere Sweet Tooth come una serie di bassa qualità. La prima è la presentazione di una tribù di adolescenti che vive per conto suo e persegue i suoi ideali (che, giusto per ribadire quanto già detto, è il classico “Natura-Buona, Umanità-Cattiva) e vive in un luna park in rovina.

Ora, domanda, cosa pensate che faccia una tribù di adolescenti? Ovvio: Gioca ai videogiochi e mangia caramelle. Poco importa se il resto del mondo si sta scannando per un tozzo di cibo e sta bruciando i mobili del salotto per scaldarsi. I nostri “bambini sperduti” di serie B hanno accesso all’energia elettrica per fare andare una sala giochi con tanto di luci al neon e una riserva di dolci a vita… oltre all’addestramento necessario per massacrare impunemente orde di militari addestrati. Perché è questo che fanno i “giovani d’oggi”: disobbediscono agli adulti e giocano ai videogiochi. Ovviamente. E tutto mentre il resto della serie fa di tutto per disegnarci un umanità impegnata a combattere per l’ultimo paio di batterie alcaline.

Ma il punto più basso di questa serie viene toccato dall’antagonista. Mettiamo le cose in chiaro: Neil Sandilands, l’attore che ha l’ingrato compito di interpretare il Generale Abbot (Il Cattivo della serie) fa di tutto per dare spessore al personaggio, sfoderando il suo intero e vasto arsenale attoriale (toni di voce, modi di fare da pazzo, studiati movimenti nel tentativo disperato di darsi un tono), ma non c’è niente da fare. Abbot è un enciclopedia di cliché: piano per la conquista del mondo, monologhi sbattuti in faccia ai personaggi tanto quanto allo spettatore dove spiega il suo Diabolico Piano e non un grammo di tridimensionalità. Si materializza in scena dal nulla e sempre accompagnato da un armata di scagnozzi scemi con tanto di carri armati, blindati, elicotteri da guerra e abbastanza soldati da far invidia alla grande armee di Napoleone Bonaparte. Non che gli serva, i suoi sgherri vengono sempre messi in ridicolo dai più stupidi espedienti messi in atto dai protagonisti. Ogni volta che compare in scena lo fa solo perché il copione lo dice. Le sue motivazioni sono “la conquista del mondo” (O meglio, di quello che ne rimane, ma non fa differenza). Cessa presto di essere una minaccia concreta ed è solo l’ennesimo dispositivo utile solo a portare avanti la trama e bistrattare i personaggi che gli capitano a tiro.

Quindi, è Sweeth Tooth, tutta da buttare? Beh… no. Due cose salvano questa serie dal trash: la regia e gli attori. A parte Abbot (che è insalvabile) ogni attore riesce a spremere ogni goccia di empatia e crescita dal suo ruolo nonostante tutto. In particolare Christian Convery (che interpreta Gus) e Nonso Anozie (Jasper) riescono a dare vita a una genuina relazione tra un ragazzino pieno di speranze che non sa niente di un mondo pericoloso e un survivalista disilluso (una relazione che farebbe scogliere il cuore di Satana in persona) e questo vale per tutti gli altri personaggi. La professionalità e il talento mostrati nella serie, nonostante il materiale fondamentalmente scadente è davvero lodevole e và davvero detto. La regia ci mostra insediamenti umani che vivono alla giornata, persino le comparse sembrano dare l’anima per dare vita a questo mondo distrutto, con la Civiltà che si regge sull’ultima gamba. Le panoramiche si alternano tra maestosi paesaggi di foreste, montagne e metropoli inghiottite dalla vegetazione. Nonostante la desolazione Sweeth Tooth ci propone un filtro di colori accesi e d’impatto che fa un lavoro eccezionale per dare vita all’ambiente. Questo è il motivo per cui ho visto la serie fino all’ultima puntata, questi momenti di bellezza cinematografica.
La scena che più mi è rimasta impressa (Attenzione Spoiler, ma non temete, è poca cosa) è quanto Jasper deve comprare un biglietto a una stazione. Non ha abbastanza “soldi” (metto le virgolette perchè i “soldi” sono degli specie di Buoni del Tesoro chiamati “Token”) e quindi cerca di contrattare con l’impiegato al banco per uno sconto, al che questo si fa corrompere con un pacco di lacci per le scarpe, che sono un bene prezioso. Ricordo di aver pensato che in un altra serie avrei considerato l’impiegato in questione come un bastardo che sta spremendo un poveraccio per fare un po’ di cresta, ma non qui, quello è solo un uomo qualunque che sta cercando di sopravvivere in un mondo difficile e sta, con una punta di malincuore, tirando solo un po’ di acqua nel suo mulino. Il punto di Sweeth Tooth non è la storia, né i plot twist o la trama (tutta roba messa insieme con lo sputo) ma questi momenti di vita e interazione tra i personaggi.

Ora però, il sottoscritto, che scrive quest’articolo, non ha mai letto il fumetto originale, quindi sono andato prima sui web e poi in fumetteria per rispondere a una semplice domande: quanto ha in comune il fumetto con la serie? In conclusione: niente. Questa non è una recensione del fumetto ma della serie di Netflix, quindi vi basti sapere questi: se siete interessati a una storia ben costruita e con veri dilemmi morali, personaggi presentati in maniera organica e una storia carica di tensione e mistero leggetevi il fumetto. Se volete una serie dove i Buoni sono contro i Cattivi, guardatevi la serie.

Francesco Viglione

RASSEGNA PANORAMICA
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recensione-sweet-tooth-da-un-grande-fumetto-ad-una-serie-televisiva-per-netflix-non-sempre-il-passo-e-breveUna serie colma di cliché che butta fuori dalla finestra il potenziale per una storia originale per arenarsi in una narrativa scontata con pedanti lezioni morali. Ma la recitazione e la regia di buona qualità riescono a mantenerla sufficientemente interessante.