Ma quale catwalking, la moda adesso sfila nel metaverso e lancia il concetto di virtual fashion system

2022: Moda nello spazio. O meglio, nel Metaverso. Si è infatti da poco conclusa la prima Fashion Week ambientata nell’ultima frontiera virtuale, slegata da capitali della moda e location esclusive, e il risultato è stato certamente interessante. Decentraland, il cui nome già tradisce la volontà di decentrare il fashion system e allontanarlo dalla fisicità dell’universo materiale, è la piattaforma che ha ospitato la Metaverse Fashion Week 2022, ed è solo una delle meta-realtà basate sulla tecnologia blockchain Ethereum attraverso le quali si sta costruendo il Metaverso. Naturalmente, l’obiettivo principale sarà quello di ottenere una nuova fetta di clientela tramite l’agevolazione dell’accesso dei potenziali acquirenti al consumo, e il piatto potrebbe rivelarsi particolarmente ricco: Morgan Stanley stima infatti che il ricavato del virtual fashion system potrebbe sfiorare i 55 miliardi nel 2030. Ma nel Metaverso non si vive di sola moda: innumerevoli sono stati gli eventi organizzati in occasione della prima Fashion Week virtuale, tra cui concerti, pop-up store e after party. Ovviamente, come nella vita reale, anche in quella virtuale non c’è nulla di gratuito: esperienze e beni di consumo sono stati acquistati dagli utenti tramite il MANA, la crypto moneta corrente su Decentraland. Come ogni settimana della moda che si rispetti, alla manifestazione hanno preso parte i marchi più noti dell’industria, ciascuno immerso più o meno profondamente nella nuova realtà virtuale. E nella corsa alle vergini terre inesplorate del Metaverso, la moda italiana si è lanciata senza risparmio. Tra gli altri, Etro ha presentato la nuova capsule Liquid Paisley, costituita esclusivamente da capi gender fluid, acquistabili sia in forma virtuale per vestire il proprio avatar (il nostro alter-ego “metaversiano”), sia fisicamente tramite il tradizionale e-commerce. Una salomonica via di mezzo tra vecchio e nuovo, tra esperienza e fatturato. Sicuramente in linea con la sensibilità avanguardista della Gen-Z ma un pochino carente in termini di web design. Anzi, diciamo pure che tra collezione nel Metaverso e il primo The Sims, il passo è insidiosamente breve. Anche Dolce&Gabbana ha provato la conquista della Metaverse Fashion Week, e l’ha fatto, per dirlo in modo galante, a modo proprio. La presenza della maison ha avuto come evento principale una sfilata sotto luci stroboscopiche di fanta-felini bidimensionali vestiti di abiti NFT dal gusto anni’80: fuseaux aderentissimi, giubbottoni leopardati dalle maniche gonfie e colori a dir poco sgargianti.

Ai posteri l’ardua sentenza. L’unico brand che sembra aver colto le potenzialità del Metaverso in maniera raffinata e lungimirante parrebbe essere, nemmeno a dirlo, Gucci. Il marchio italiano ha infatti di recente lanciato il Gucci Vault, un non-luogo di contaminazione semantica tra arte, letteratura e moda; un concept-store dove assistere a sfilate fuori calendario ma anche un contenitore culturale dove rimettere in discussione il concetto di genere e promuovere stilisti e scrittori emergenti. Un progetto in linea con l’identità della maison e con la visione intellettuale di Alessandro Michele, e che sembra avere i presupposti concettuali giusti per fiorire in maniera autonoma e originale. Presupposti che anche la Metaverse Fashion Week può certamente vantare anche se, come è noto, tra intuizione ed esecuzione c’è di mezzo un metaverso. La manifestazione ha infatti riscontrato un successo nettamente al di sotto delle aspettative, per partecipazione e ricavato, a causa di una tecnologia ancora claudicante che ha impedito a molti utenti di connettersi, a crypto-prezzi esorbitanti, ad una cura dell’estetica che ha lasciato spesso a desiderare.

Eppure, l’intento dichiarato sarebbe anche dei più nobili: rendere la moda più democratica, alla portata di tutti sia in termini sociali che geografici, e slegata dalla fisicità di un mondo che, come la pandemia ha dimostrato, è fragile nella sua tangibilità. Non solo, ma un’industria virtuale avrebbe un’impronta molto minore, se non addirittura inesistente, sull’ambiente, e aprirebbe dunque la strada ad un consumo della moda più sostenibile.

Al di là dell’esordio non proprio eccellente, cosa del tutto comprensibile dato che si tratta comunque di uno sforzo titanico ed avanguardista che avrà sicuramente modo di affinarsi con la pratica, non è possibile fare a meno di domandarsi se non si stia però perdendo di vista ciò che rende l’industria della moda così appealing agli occhi del grande pubblico. Innanzitutto, e soprattutto per la moda italiana, ciò che rende certi prodotti così prestigiosi, inimitabili e di conseguenza costosi, è l’artigianalità perfezionata nel tempo, tramandata di bottega in bottega, di padre in figlio, impareggiabile per qualità e onerosa in termini di risorse e tempistiche.

Se si rinuncia a questo, che cosa avrà il made in Italy in più rispetto a un qualsiasi altro prodotto digitale codificato nel metaverso in qualsiasi altra parte del mondo? In secondo luogo, bisogna ammettere e ricordare che il lusso è tale proprio perché è per pochi. Non un concetto particolarmente democratico ma d’altro canto, se c’è un settore che democratico non è mai stato è proprio quello del lusso.

Volendo strizzare l’occhio all’ironia, nella scena culmine de “Il diavolo veste Prada”, Miranda si rivolge alla giovane Andy dicendole: “Tutti vorrebbero essere noi”. Ecco, se tutti potessero essere Miranda Priestly, se Prada diventasse per tutte le tasche, se agli eventi più esclusivi e alle sfilate in prima fila ci potessero andare tutti grazie al proprio avatar, crollerebbe quel cancello dorato dietro il quale il fashion system si è auto isolato, e si perderebbe quell’alone di inarrivabile intangibilità che ne ha costruito per buona parte il fascino e il prestigio.

Dura lex, sed luxury lex. D’altro canto, ci sarebbero forse campi che sarebbe di molta più immediata importanza rendere accessibili a tutti tramite il Metaverso, come ad esempio quello dell’istruzione, dell’informazione libera e imparziale e della salute mentale, specie considerando i tempi in cui viviamo. E per quanto, parafrasando nuovamente “Il diavolo veste Prada”, tutti abbiano “un disperato bisogno di Chanel”, ancora per il momento la soluzione migliore pare quella di sbirciare nella stanza dei bottoni tramite le dirette streaming e le care vecchie riviste di moda.

Fiorenza Sparatore

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Classe 1993, milanese fiera. Laureata a pieni voti in Storia dell'Arte, ora lavora per una celebre maison di moda. A 6 anni ha imparato a scrivere e non ha mai smesso. Le sue passioni sono l'arte, la cultura e la musica heavy metal.