Tiziana Ferrario è una vera e propria giornalista da record che sin dai primi anni della sua carriera è stata capace di abbattere le barriere di genere, quando ancora nessuno ne parlava raccontando al grande pubblico televisivo italiano cosa avveniva oltre i confini di guerra affrontando coraggiosamente crisi umanitarie e internazionali, dall’Afghanistan, al Medio Oriente e l’Iraq, passando dal Sud Est Asiatico, l’Africa, l’ Uganda e il Darfur. Oggi, la prima anchorwoman che nel 1982 ha condotto l’edizione serale del TG1, insignita Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana nel 2003 dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, continua nel suo impegno civile prestandoci il suo sguardo cronistico sempre vigile sul concetto di società paritaria ed inclusiva. A dieci anni dal saggio “Il vento di Kabul” la giornalista milanese torna nel paese ai piedi dell’Hindukush per il suo primo romanzo intitolato “La principessa afghana e il giardino delle giovani ribelli“, un racconto appassionante edito da Chiarelettere, giunto alla sua seconda edizione. Tra le pagine del racconto, si esprime la difficoltà di una generazione che non si vuole fermare difronte alle leggi imposte della sharia ripercorrendo quasi un secolo di storia attraverso le protagoniste della battaglia per la libertà. Noi di Domanipress abbiamo avuto il piacere di ospitare nel nostro salotto virtuale Tiziana Ferrario per parlare con lei di libertà, differenze di genere e dell’importanza dell’informazione come strumento per conoscere il mondo con consapevolezza critica e costruttiva.
A quasi quindici anni dal libro “Il vento di Kabul” sei tornata a trattare il tema mediorientale con “La principessa Afgana”. Questa volta hai scelto la forma romanzo, come mai questa scelta? Com’ è stato interfacciarsi con questa tipologia di scrittura?
«Scrivere un romanzo è stata per me una sfida, avevo già scritto di Afghanistan in un saggio intitolato “Il vento di Kabul” a pochi anni dalla caduta del regime dei talebani, questa volta però, subito dopo l’annuncio del ritiro, ho subito pensato alla condizione di milioni di donne afghane che sarebbero rimaste da sole a lottare contro un sistema che non riconosce i diritti fondamentali, senza alcuna speranza per il loro futuro perché era evidente che nel momento in cui i contingenti internazionali se ne fossero andati gli integralisti sarebbero tornati al potere. Per poter raccontare il paese e mettere in guardia sul destino di queste vite ho trovato una forma di narrazione diversa dal saggio per portare i lettori che non conoscono la situazione mediorientale dentro atmosfere e sapori di quei luoghi raccontando anche il paese e non solo la parte politica e bellica del terrorismo ma anche l’intimità di queste donne, i loro sogni e le loro speranze. Sono partita dalla Principessa afghana, una donna molto coraggiosa che ha vissuto in Italia per tanti anni, dopo l’esilio dal suo paese alla famiglia reale nel 1973, una donna che io ho conosciuto personalmente, un’amica speciale a cui ho tenuto molto che mi ha aiutato a interpretare gli usi e i costumi della società afgana. Nel romanzo l’ho immaginata in un giardino in compagnia di tante altre protagonista che la incontrano in questo luogo protetto per raccontare le vicissitudini delle loro vite che si intrecciano con le vicende politiche dell’Afghanistan».
Il romanzo dipinge attraverso il racconto della quotidianità una prospettiva completa delle dinamiche socio-politiche dell’Afganistan, anche quelle che non emergono dalla cronaca…
«Si dal romanzo emerge un secolo di storia di un paese mediorientale che ha vissuto anche anni di grande tolleranza, ad esempio quando era attraversato dai giovani hippie europei che si dirigevano verso l’india e percorrevano la via della seta. Con la principessa afghana e il giardino delle giovani ribelli ho voluto portare i lettori dentro la realtà di una cultura che ci sembra così lontana ma che in realtà attraversa anche la nostra storia».
La principessa Homaira, che dà il titolo al libro, è stata la tua guida su gli usi e costumi dell’Afganistan, cosa ricordi di lei? Come sei riuscita a riunire i ricordi e tutti i dettagli lucidamente descritti nel libro?
«Ho viaggiato in Afghanistan per tanti anni, per me quella terra è stata una seconda casa. Per comprenderlo al meglio Ho frequentato realmente la principessa finché non è scomparsa nel 2014, mi piaceva ascoltarla, era una donna di grande intelletto, mi raccontava le storie della sua vita, spaccati di realtà che mi sono rimaste nelle memoria; la vedevo spesso anche litigare al telefono con i capi tribù perché conosceva tutti, da quando era ancora bambina, crescendo accanto al nonno aveva imparato a conoscere tutti i capi tribali. Certe volte non riuscivo ad interpretarla perché quello della lingua era uno scoglio importante ma lei cercava sempre di farsi comprendere… ».
Nel romanzo descrivi le ricette, gli odori i sapori e i colori come se fossero delle pennellate di realtà in un atmosfera speziata e suggestiva…
«Per le ricette e per altri dettagli ho chiesto il permesso alla figlia di Homaira che mi ha rischiarito i ricordi, ho approfondito con le sue sorelle i dettagli sulla loro vita in Afghanistan prima del colpo di stato. Tutto quello che è inserito nella storia fa parte anche di un racconto di verità che parte da un’indagine giornalistica, alcune vicende che si possono incontrare sono finite sulle pagine dei giornali internazionali. Non ho menzionato i reali nomi e cognomi delle donne per tutelarle, alcune di loro sono ancora in Afghanistan e non volevo che potesse emergere un qualunque indizio che potesse metterle in pericolo».
Tra tutte le donne che racconti nel libro qual è stata quella che ti ha maggiormente emozionato?
«In ogni storia c’è un esempio di coraggio perché questi venti anni hanno consentito a molte di queste ragazze afgane di poter almeno immaginare un futuro sapendo che quando ti alzi la mattina e esci da casa non hai la certezza di tornare viva perché fai un lavoro che non piace agli integralisti. Molte di queste ragazze facevano lavori sconvenienti al regime immagino le giornaliste televisive, il mio cuore batteva un po per loro perché seguivano una missione che ho seguito anch’io da tutta una vita e lo hanno pagato con un caro prezzo perché una donna che va in video e racconta è qualcosa di disdicevole per gli integralisti è da eliminare. Appena sono tornati di nuovo i talebani al potere il canto femminile e le giornaliste sono scomparse dalle televisioni perché fare tv per una donna è disdicevole ma già prima di questo ritorno molte colleghe ricevevano moltissime minacce, oggi molte sono scappate altre preferiscono non apparire perché hanno paura quindi è sempre un gesto di grande coraggio nascere donna in Afghanistan e affrontare la vita provando ad immaginare un futuro. Lo sappiamo tutti che le donne afghane sono in una condizione molto difficile però io ho usato la fantasia per immaginare i loro dialoghi per inserirle in un luogo protetto, la fantasia mi ha aiutato a farle parlare e questo ha suscitato in me delle emozioni profonde che spero di trasmettere ai lettori».
Prima di essere una delle prime anchorwoman del tg1 sei stata soprattutto inviata di guerra nei luoghi che racconti…cosa ricordi del tuo primo viaggio in Afganistan?
«La prima volta che sono partita per l’Afghanistan, nel duemila, non c’erano ancora i talebani, ero in compagnia di Gino Strada che curava i bambini negli ospedali realizzati da Emergency nel Panjshir e a Kabul; la città a seguito della guerra civile era stata rasa al suolo. Io mi ero organizzata con la delegazione italiana dove oltre a Gino c’era anche un sottosegretario agli esteri, Ugo Intini, che voleva realizzare dei corridoi umanitari perché la popolazione era in grande sofferenza».
Quanto l’azione di Gino Strada fosse importante lo ha dimostrato tutto l’affetto manifestato in massa dopo la sua scomparsa…
«Era un uomo eccezionale, con lui ho incontrato il generale Massoud combattente contro il regime talebano afghano ma nello stesso periodo con Emergency ha anche costruito un ospedale a Kabul frutto di un accordo con i talebani. La sua filosofia era quella di curare tutti senza distinzioni…Prima della guerra al terrorismo sono tornata in Afganistan anche con Laura Boldrini portavoce dell’alto commissariato per rifugiati, aiutava i profughi che volevano rientrare nel paese. In questo periodo più volte avevo documentato la condizione delle donne sotto il regime dei talebani: non potevano uscire da casa, non studiavano e non lavoravano inoltre venivano lapidate negli stadi se per caso erano state accusate di adulterio o di tradimento».
L’undici settembre del 2001 tutto il mondo si è fermato davanti alle immagini drammatiche dell’attacco terroristico alle Twin Towers…cosa ricordi di quel momento?
«Ero in onda, in prima fila per l’edizione straordinaria del TG1 dal pomeriggio fino alla sera, sono stata la prima giornalista Rai a documentare l’attentato. Erano momenti di grande difficoltà ricordo che pensavamo che il secondo attacco fosse una ripresa realizzata da un’angolazione diversa , è stata una diretta drammatica perché vedevamo i corpi delle vittime e la popolazione fuggire. Per me è stato complicato raccontarlo cercando di capire anche quello che stava succedendo perché in quel momento non si capiva chi fossero gli attentatori, all’inizio si era pensato ad un incidente ma quando poi si è scoperto che c’era un secondo aereo e poi ce n’era uno che puntava dritto sul pentagono e e poi ce n’era un altro che andava dritto sulla casa bianca si è interrotto il traffico aereo e poi dopo un po si è intuito che era stato un ordine dato da Osama Bin Laden che era ospitato in Afghanistan dai talebani quindi il giorno dopo sono subito partita per il Pakistan ai confini, le frontiere erano chiuse ma essendo stata in afghanistan già negli anni precedenti avevo idea di come ci si potesse muovere in fretta e prenotare gli alberghi. Pochi giornalisti monitoravano la zona perché dopo la partenza dei sovietici nel 1989 tutta quella parte del mondo non era più di interesse ».
Gli attentati hanno acceso un faro su una realtà che era quasi sconosciuta in occidente…
«Se non ci fossero stati gli attentati alle torri gemelle la comunità internazionale certo non si sarebbe attivata per andare a liberare le donne dalla dittatura talebana, sicuramente è stato l’attentato a New York a far iniziare la guerra contro terrorismo e contro i talebani e a far cadere il regime».
tutto quello che è successo certo è una pagina di storia sulla quale riflettere…Biden nel suo discorso alla nazione ha parlato di vittoria e di una nuova era…
« Biden ha semplicemente chiuso la più lunga guerra americana accettando quell’accordo un po’ folle siglato da Trump con i Talebani che prevedeva un ritiro di tutte le forze straniere a partire dagli americani; l’idea era quella di realizzare un governo di “unità nazionale” per dirla con un termine che usiamo noi occidentali per poi andare alle elezioni ma ovviamente tutto questo non è successo».
I talebani di oggi rispetto a quelli di vent’anni fa sono cambiati?
«I talebani hanno dichiarato chiaramente che c’è la volontà di perseguire la sharia, alcuni sono vecchi dirigenti altri si sono aggiunti ma non si tratta di un gruppo omogeneo; c’è un gruppo, quello di Doha, più politico che passa per essere diciamo più moderato ma ovviamente usiamo il termine moderato solo perché si siede al tavolo in un albergo a cinque stelle con la delegazione americana però c’è da chiarire che comunque non ha mai preso le distanze da al Qaeda. Il ministro dell’interno e dell’attuale governo provvisorio in Afghanistan è membro del clan Haqqani attualmente sulla lista nera dell’FBI. Sul ministro dell’interno c’è una taglia da 10 milioni che pende sulla sua testa… e poi c’è un leader come il Mullah Baradar che opera come ambasciatore tessendo rapporti con le capitali asiatiche sicuramente è la parte più presentabile, comunque al momento i talebani non hanno mai preso le distanze da Al Qaida con la quale hanno fatto affari in tutti questi 20 anni perché sono stati in fuga insieme…».
Qualcosa è comunque cambiato, anche i sistemi economici a seguito della pandemia hanno cambiato il loro assetto…
«Oggi sicuramente i talebani hanno bisogno della comunità internazionale perché c’è una grave crisi umanitaria in corso non ricevono fondi e l’Afghanistan è un paese che fino a poco prima dell’arrivo dei talebani comunque riceveva liquidità per pagare gli stipendi di tutti i dipendenti pubblici e di tutte le forze di sicurezza; tutto questo adesso è congelato quindi la comunità internazionale deve cercare di portare aiuti alla gente che sta morendo di fame senza dare liquidità ai talebani ovviamente perché poi non riuscirebbe a controllarne l’utilizzo, quindi questa è la vera sfida».
Il rischio di tornare al terrorismo potrebbe essere concreto?
«Questo non lo possiamo sapere ma certamente nessun paese confinante con l’Afghanistan ha interesse ad avere un paese instabile a pochi passi dalla Cina all’ Iran passando per le ex repubbliche sovietiche quelle del Tagikistan Uzbekistan e Pakistan è compresa poi l’India, nessuno ha interesse ad avere un paradiso per terroristi alle porte di casa perché poi destabilizza anche paesi accanto, la Cina ad esempio ha interesse a riaprire la via della seta anche passando dall’Afghanistan».
Dalla politica estera a quella interna del nostro Paese, a proposito di diritti fondamentali qualche giorno fa si è assistito allo stop al DDL Zan, tu che sei sempre molto attenta alle minoranze cosa ne pensi di questo clamoroso passo indietro?
«Credo che sia una brutta pagina politica, difficilmente il DDL Zan potrà essere riportato in discussione e approvato, si trattava di aggiungere delle tutele in più alla legge che non tutela alcune persone in modo chiaro, mi sembra molto difficile che si possa tornare indietro e mi ferisce profondamente. Il comportamento di alcuni questi politici che hanno esultato come fossero allo stadio è un altro brutto segnale perché tende ad alimentare ancora di più odio, in un’aula di un parlamento questo tipo di comportamenti non può e non deve essere ammesso. Non si tratta di una partita di calcio su chi vince chi perde si gioca con le persone e quindi ci deve essere anche un messaggio nei gesti di rispetto del luogo in cui si lavora. Uno stato che non tutela la nostra libertà è uno stato che non può dirsi democratico».
Dai tuoi esordi ad oggi il mestiere del giornalista e del comunicatore è profondamente cambiato, i social media hanno anche modificato il racconto di cronaca che spesso depone l’immediatezza all’imparzialità; come vivi questo questo cambiamento, qual è il tuo rapporto con la tecnologia rispettivamente al tuo lavoro e la la tua sfera privata?
«Mi ritengo a favore della tecnologia, mi facilita il lavoro e se penso a come facevo la giornalista 30 anni fa rispetto ad oggi posso dirti che c’è molta rapidità nel fare verifiche e accedere a notizie, si segue il mondo in modo orizzontale; vedo dei grandi vantaggi in tutto questo ma c’è anche l’altra faccia della medaglia. L’ uso e l’abuso della tecnologia senza alcun controllo ha portato alle fake news alimentando una pericolosa disinformazione che crea contrapposizioni perché gli algoritmi ti portano poi a informarti solo su quello che ti piace quindi diventa difficile seguire altre fonti. Bisogna educare ad una scelta e consapevolezza personale che faccia maturare l’idea che non ci si può fidare di tutto quello che corre in rete , che bisogna trovare fonti che siano attendibili e che si deve avere il tempo di verificare non di rilanciare subito tutto quello che ci viene sottoposto».
Forse l’utilizzo etico e consapevole dei social dovrebbe essere una nuova materia inserita nelle scuole…
«Ci vuole più responsabilità oltre che formazione serve una legge europea che ci metta al riparo, quando guardo tik tok mi spavento perché mi rendo conto che un bambino o un ragazzino rischia di passare ore a vedere sciocchezze senza alcun tipo di filtro».
Qualche anno fa tu sei stata la prima a proporre un TG dedicato unicamente ai ragazzi…
«Il GT Ragazzi è stato un successo, ci abbiamo lavorato molto, era un telegiornale vero declinato per il target giovanile; la stessa scaletta dei grandi la si trasformava in un linguaggio ed una grafica più comprensibile, infatti lo seguivano moltissimi ragazzi che si sentivano presi sul serio e che percepivano che io non ero lì per intrattenerli ma per spiegare loro le dinamiche sociali che muovevano il mondo. Oggi non so quanto funzionerebbe perché appunto i ragazzi guardano meno la televisione ma anche sui canali digitali bisognerebbe sperimentare qualcosa di simile che intercetti l’interesse dei ragazzi e informi in maniera sana, veloce e consapevole».
Come ultima domanda parafrasiamo sempre il titolo del nostro magazine e chiediamo come vede il “Domani” Tiziana Ferrario quali sono le tue speranze e le tue paure?
«Cerco sempre di coltivare la speranza del Domani, questa però non è un’ azione fine a se stessa penso che ogni scelta quotidiana di tutti noi possa fare la differenza non possiamo aspettare che i cambiamenti arrivino dall’alto, bisogna imparare a coltivare i piccoli gesti quotidiani di ognuno di noi per costruire un futuro migliore, inclusivo e più equo per tutti».
Intervista Esclusiva a cura di Simone Intermite