Intervista – Nicola Gardini: “Difendo il latino e credo nella forza e nella dignità delle parole”

Professore di letteratura italiana e comparata alla University of Oxford , traduttore di classici latini, giornalista e scrittore di successo, Nicola Gardini è una delle più brillanti eccellenze culturali italiane all’estero. Il suo percorso accademico e letterario ha maturato una serie di successi, dall’ esordio in poesia con “La primavera” al romanzo “Le parole perdute di Amelia Lynd“, premio Viareggio e Zerilli-Marimò passando per il suo ultimo romanzo “La vita non vissuta” fino alle sue opere di traduttore di grandi autori classici come Ovidio, Marco Aurelio e Catullo. Oggi Nicola sempre in cerca di nuovi spunti ed approfondimenti ha pubblicato per la casa editrice Garzanti un nuovo saggio dal titolo provocatorio:  “Viva il latino. Storie e bellezza di una lingua inutile“, dove con una fervida curiosità intellettuale si rivendica l’utilità di conoscere le humanæ litteræ per riappropriarsi uno strumento espressivo che è alla base della nostra identità europea. Noi di Domanipress abbiamo incontrato il professor Gardini e abbiamo scoperto questo nuovo progetto.

13138744_354588981331415_5068587932213450200_n

Nel nuovo libro “Viva il latino. Storie e bellezza di una lingua inutile” rivendichi la vitalità delle discipline umanistiche come lente di ingrandimento per capire la realtà contemporanea. Come nasce l’esigenza di scrivere questo saggio?

In tutto il mio lavoro agisce la fiducia nella forza e nella dignità delle parole . Scrivo libri, insegno letteratura e pratico le lingue straniere perché credo che nella scrittura, nell’interpretazione dei testi, nella conoscenza di idiomi non nativi, antichi e no, ci sia qualcosa di profondamente vitale per la salvaguardia della civiltà. Confido molto anche nell’istituto scolastico, e in particolare nel liceo classico, uno dei meriti maggiori della cultura italiana… Il latino riassume tutto questo in forma esemplare. Ecco perché ne ho fatto il tema del mio saggio. Difendere il latino significa schierarsi a favore di tutto il sapere umanistico, dell’universo delle parole.

In un mondo dove sembra prevalere la volontà tirannica di eliminare tutto ciò che ci induce ad un pensiero complesso quale può essere secondo te l’approccio più innovativo per studiare la lingua latina?

La lingua latina va studiata perché si possano leggere i grandi testi della civiltà che ha dato origine al nostro mondo, fissando la fisionomia culturale e spirituale d’Europa per secoli e secoli. Se siamo come siamo, lo dobbiamo a un pensiero che si è espresso in latino. L’insegnamento, se posso fare in pochissimo spazio qualche proposta, va liberato dal vuoto grammaticalismo e rivolto quanto più in fretta possibile alla lettura dei testi originali. Occorre far tradurre. Gli ultimi a contestare lo studio del latino sono i giovani, che continuano ad appassionarsi all’antichità, alle origini delle cose, alle differenze, alla complessità che dici. Non ci vuole innovazione: ci vuole passione, applicazione, studio in chi insegna.

Ricordi qual è stato il tuo primo contatto con le lettere antiche? Se dovessi consigliare un classico latino ad un giovane lettore quale consiglieresti?

Come racconto in Viva il latino, scoprii il latino e anche qualche parola greca alla scuola media. In prima media imparai parecchia mitologia. Mi segnò per sempre. A un giovane lettore consiglierei l’Eneide di Virgilio, summa di un’intera civiltà.

La tua carriera accademica ti ha portato ad essere cittadino del mondo ed un intellettuale famoso: hai studiato in Italia ed in America ed attualmente lavori in Inghilterra presso l’Università di Oxford. Come cambia l’approccio agli studi classici ed umanistici nei diversi stati in cui hai lavorato?

Lo studio delle lettere classiche in Italia ha e ha avuto molto che fare anche con questioni di identità nazionale. Il latino ha rappresentato una lunga continuità, specie in momenti di disgregazione e di disunità linguistica, fino ai bagliori del romanticismo, e anche oltre, avendo nel Rinascimento la sua ora di massima importanza. In America e in Inghilterra le cose non stanno così. Però ogni nazione trasferisce nello studio dell’antichità temi e problemi che la riguardano direttamente. In America lo studio dei classici guarda più a questioni di carattere sociale, storico-antropologico; all’identità sessuale; al potere politico. In Inghilterra la letteratura antica è fondamento di una disciplina storica come un’altra: si studiano fonti, si commentano i testi… Tutti gli studi umanistici in Inghilterra risentono di un forte pregiudizio positivistico; si studia il dato per “come è”… In America, invece, non mancano le forzature ideologiche e le attualizzazioni antistoriche. Anche in quelle, però, fatta qualche correzione, può brillare una reale volontà di sapere.

Oltre ad essere un saggista e romanziere sei anche un traduttore di letteratura latina e moderna. Cicerone diceva che ratio quæ lumen adhibere rebus debet , la lingua deve portare luce alle cose. Nel delicato passaggio da un lingua antica ad una moderna quali sono le principali difficoltà che ricordi di aver incontrato? È più difficile tradurre Dickinson o Catullo?

Bella questa domanda, se sia più difficile tradurre un antico o un moderno… Direi che la difficoltà, a priori, è sempre la stessa. La lingua di un poeta di qualunque epoca e cultura e lingua è sempre una lingua speciale, una lingua – diciamo – tecnica, della quale occorre intendere gli elementi distintivi, il sotteso impianto metaforico. Una parola, infatti, non è mai un lemma di dizionario, ma spunta da un suolo di sensi intrecciati. Occorre scoprire le parentele tra le parole, e traducendo lasciarsi guidare dalla consapevolezza di queste parentele. Daisy in Dickinson non vuol dire solo pratolina, margherita di campo, come dice il dizionario: ma è simbolo di umiltà, di mortalità, di bellezza… Mentula, la famosa parolaccia latina, in Catullo sarà anche il progenitore della più caratteristica parolaccia siciliana, ma non ne capiamo davvero il senso – e non lo rendiamo – se non capiamo che quella parola è parte di una rete di immagini che servono a stabilire attraverso i ruoli sessuali l’identità sociale del poeta.

Nicola Gardini Intervista

 

In uno dei tuoi romanzi più intensi “Le parole perdute di Amelia Lynd” ambientato nell’Italia degli anni settanta l’amore per la parole e la cultura portate nel contesto “alieno” di un condominio come tanti da Amelya Lynd diventa per il protagonista Chino una chiave di riscatto rispetto alla realtà circostante. Amelya Lynd è il tuo alter ego? Nella tua formazione quali sono state invece le figure di riferimento?

Dici proprio bene: il giovane Chino grazie agli insegnamenti linguistici di Amelia Lynd ha scoperto una vita migliore, si è preparato un futuro libero dalle miserie del conformismo e del razzismo. Amelia Lynd potrebbe essere un ritratto dell’autore, perché no? In Chino, però, ho anche messo qualcosa di me stesso: anch’io ero un bambino che pativa orrendamente il contesto sociale, che voleva imparare tutto, che cercava maestri in chiunque dimostrasse di avere qualcosa da dire… Io non ho avuto una Amelia Lynd. Però ho avuto molti maestri, padri di amici, insegnanti, amici stessi, i libri, gli antichi, le grammatiche, i dizionari… Ancora ne ho e ne cerco. Io sono uno studente perenne.

Il romanzo insiste sulle forza delle “parole” che diventano veicolo di un processo di cambiamento. Oggi la potenza delle parole è rafforzata ed estremizzata da internet attraverso i “veloci” 140 caratteri di twitter e dei social networks. Come vivi questo cambiamento? È possibile coniugare la tradizione all’innovazione?

Oggi anneghiamo tra i messaggi scritti. Ma sono parole? Che cos’è una parola veramente? Una parola è qualcosa che conosciamo in profondità, che ci appartiene, che abbiamo scelto, perché porta un pensiero e agisce e sta per noi… Qui, nei social e in internet in generale, mi pare che ci sia un continuo scambio di puntini di sospensione più che di parole; segni che non hanno nessuna voce, né l’avrebbero se pure fossero pronunciati da chi li ha scritti, come non sono una voce i suoni del navigatore satellitare che ci istruisce sul da farsi… Ma, certo, l’elettronica offre alle parole grandi, stupende occasioni… Io sulla mia pagina facebook, quando sono in vena, pubblico una poesia, una poesia che magari anni fa avrei destinato a un libro chissà quando pubblicabile. Ecco: ora la poesia la pubblico quando voglio io. Sarebbe bello che tutti, idealmente, scrivessimo le parole come se dovessero finire in una metrica.

Le parole perdute di Amelia Lynd

I tuoi romanzi letti in controluce sembrano far scorgere elementi del tuo vissuto personale. Italo Calvino diceva che scrivere è sempre nascondere qualcosa in modo che venga poi scoperto. Sei d’accordo?

Uno scrittore mette nei suoi libri le cose che conosce meglio. Certe di queste possono essere i ricordi. Ma i ricordi, una volta scritti, non sono più ricordi, sono scrittura, parte di un insieme di conoscenze. Non si distinguono più dall’invenzione, dalla riflessione, dal dato appreso. È un peccato che certe persone, credendo di riconoscersi nei miei romanzi, si siano sentite chiamate in causa. Se anche abbiamo qualche ricordo in comune, quella scrittura è solo mia, loro non sono le mie parole; le mie parole non sono neanche mie, alla fine, ma appartengono alla storia, non appartengono alle persone che frequento più di quanto un pugno di farina con cui abbiamo fatto una torta continui ad appartenere al mazzo di spighe da cui è derivata. Ai biografi decidere se il Marcel della Recherche è un riflesso del Marcel Proust che la Recherche ha scritto. Io credo che nessuno parli mai veramente di se stesso nei libri che scrive, checché dicano i biografi. Nessuno saprà mai niente di vero di nessuno, in ogni caso. I libri sono una verità in sé; non vanno trattati per documenti. Chi lo fa, troverà magari materiale utile, ma si perde il senso del libro, la costruzione di una voce: questa non esiste prima della scrittura.

Come ultima domanda parafrasiamo sempre il titolo del nostro magazine e chiediamo come vede il “Domani” Nicola Gardini quali sono le tue speranze e le tue paure? 

Domani può esserci solo se continuiamo a darci un passato. Il domani è riserva del passato. Solo così diventa una forma dell’avvenire. Sennò… Non so. Certi scienziati (biologi e informatici) credono che l’estinzione del genere umano non è lontanissima. Io penso che finché c’è qualcuno che legge c’è domani.

go explore

Simone Intermite

Articolo precedenteMilano: Dal 12 luglio al 13 agosto Brera apre la sua Accademia al pubblico
Articolo successivoThe legend of Tarzan: la recensione dell’ultimo film diretto dal regista di Harry Potter
Direttore editoriale del portale Domanipress.it Laureato in lettere, specializzato in filologia moderna con esperienza nel settore del giornalismo radiotelevisivo e web si occupa di eventi culturali e marketing. Iscritto all’albo dei giornalisti dal 2010 lavora nel campo della comunicazione e cura svariate produzioni reportistiche nazionali.