“La mia vita è un viaggio senza fine, un’odissea tra le strade del mondo e i meandri dell’anima. Ho pedalato attraverso continenti, ho incontrato maestri e sciamani, ho vissuto senza soldi né scarpe. È stato un periodo di scoperta, di rinascita, di trasformazione. E da quel viaggio sono rinato.” Così si racconta Gio Evan, poliedrico artista che abbraccia molteplici forme espressive e che ha attraversato un cammino straordinario prima di affermarsi nel panorama artistico italiano e internazionale. Dai suoi esordi nel progetto “Le scarpe del vento” alla pubblicazione del suo primo disco “Cranioterapia”, il cantautore pugliese ha costantemente sfidato i confini dell’arte e della creatività. Ma è con il suo ultimo album, “Ribellissimi”, che il suo estro creativo ha raggiunto nuove vette. Un concept album che fonde musica e poesia in un connubio unico, dando vita a undici brani che esplorano le sfumature della ribellione e della bellezza. “Ribellissimi” non è solo un album, ma un manifesto di rinascita spirituale, un inno alla bellezza e alla meraviglia che permea il mondo. Attraverso le sue canzoni e le sue poesie, Gio Evan ci invita a esplorare l’interiorità e a abbracciare la nostra fragilità inossidabile. Il poeta molfettese non è solo un cantautore, ma un visionario, un filosofo, un performer che continua a ispirare e a sorprendere il suo pubblico con la sua arte senza confini. L’abbiamo incontrato nel Salotto di Domanipress in una Video intervista esclusiva, dove ha condiviso con noi il suo pensiero profondo e la sua visione unica del mondo, lasciandoci ancora una volta incantati dalla sua creatività e dalla sua autenticità.

Sei poeta, filosofo, umorista, performer, cantautore. Qual è il filrouge che accomuna tutti questi talenti. Sono davvero tanti. 

«Sicuramente il filo illogico è il pensiero. Senza pensiero, non penso che si possa minimamente accennare l’arte o la filosofia o l’umorismo. E quindi, tutto è dato da questo concetto».

Pensiero, che effettivamente si fa molto intenso, anche nel tuo ultimo album, Ribellissimi, una raccolta di canzoni, 11 brani inediti e 11 poesie che si incontrano per nuovi messaggi. Come è nata l’esigenza di voler ritornare con un nuovo album, un’ azione non scontata di questi tempi di singoli un po’ sparsi sulle piattaforme. 

«L’idea di fare un album mi serve proprio a livello di ordine mentale, se ho i singoli sparsi, è come avere il disordine in casa. Per me, deve essere chiuso, deve avere tutto un concept, ogni percorso deve avere un concetto, altrimenti non riesco, poi, quando faccio il recap della vita, dell’anno che ho passato, non so cosa ho fatto, a cosa ho pensato, a cosa ho dato energia; quindi, mi serve, perlomeno ogni anno, chiudere tutto, per poter poi aprire nuove idee, nuovi obiettivi».

Ma non mi sembra essere l’unico motivo…

«Dall’altro punto di vista, invece, Ribellissimi è stato un percorso di pazienza, venivo da Mareducato, che era l’album post Sanremo, e da lì non ho fatto più niente, sono passati tre anni, capisco che il mercato di oggi, delle richieste del pubblico, di come lo stream macina veloce ormai questo prodotto, che è la musica, avevo prima di tutto voglia di essere un’anomalia, mi piaceva questa cosa di rallentare, fermarsi e anche sparire, perché no? Continuando sempre, ovviamente, i live, perché poi a me interessa andare dalle persone. E quindi, Ribellissimi mi ha aiutato un sacco a livello di pazienza, di non aver paura di sparire, di scrivere quando uno vuole scrivere e non di scrivere, perché il pubblico ha bisogno della sua dose giornaliera di scrittura. E quindi, è stato bello, un percorso molto sereno, più che lento, è stato proprio tranquillo».

In Ribellissimi s’incontrano canzoni e poesie, come avviene la scrittura di una e dell’altra? Come gestisci anche questa natura duplice, perché effettivamente scrivere una canzone è un conto, a livello di metrica, di struttura, scrivere poesie è un altro. Perché una diventa canzone, l’altra diventa poesia?

«Questo processo per me è semplicissimo. D’abitudine scrivo, quindi butto intanto tutto su foglio, a volte scrivo e basta, a volte scrivo anche con la chitarra in mano, quindi già lì si vede che il io quotidiano sta suggerendo qualcosa. E quando scrivo, mi accorgo che alcune parole hanno una sonorità dentro, è come se avessero dentro una scala, una nota, e quindi vado solo a zoomare dentro alcuni concetti, dentro alcune parole e mi accorgo che possono stare bene anche in un contesto più musicale; quindi, comincio poi a fare un setaccio, io scrivo tutto, e poi con il setaccio grande, vado a vedere chi vuole essere cantato e chi no. In realtà, è tutta una questione di domanda; io lo domando all’arte stessa: chi vuole essere cantato, chi vuole essere solo letto? E poi da lì avviene tutto il processo creativo».

Per quanto riguarda il titolo dell’album Ribellissimi, cosa rappresenta? Questo è un periodo storico molto particolare, di cambiamento ; usciamo da un periodo che ci ha visto reclusi qualche anno fa, quindi tutti quanti abbiamo la necessità di ridefinire i contorni delle nostre vite; qualcuno pensa e teorizza il fatto che però alla nostra generazione, dico la nostra, perché alla fine siamo coetanei, effettivamente manchi questo germe sano della ribellione, quello che magari c’era nel ’68. La tua ribellione qual è? 

«La ribellione cambia continuamente, di generazione in generazione e secolo dopo secolo è sempre mutata. Per ribellione dobbiamo sempre intendere un movimento minore, una minoranza, altrimenti non sarebbe una ribellione, sarebbe un cambiamento netto; una ribellione, invece, tenta, provoca, stimola un cambiamento, ma non è detto che avviene, perché può essere anche che rimanga isolato e scontento. Quindi, già valutiamo il fatto che si tratti di una minoranza. Oggi la ribellione, questa minoranza, sicuramente, sta facendo un lavoro più isolato, dove avviene l’abbattimento del consumismo, la ribellione è colui che non compra più per vizio, ma per necessità; non comprare più determinati brand, non appoggiare più determinate potenze, non dare più i soldi a grandi catene, ma ritornare un po’ al piccolo; ti faccio un esempio gigante: invece di comprare il panino dal McDonald’s lo puoi comprare dal tuo vicino di casa che fa i panini con la porchetta; questa è una ribellione, perché tu stai facendo una scelta politica, quella politica che tu stai facendo può attuare dei grandi cambiamenti se messa su grande scala, no? Il problema, oggi, è che non la vediamo più come una gestualità capace di irrompere nel sistema, e per questo diciamo “Tanto lo fanno tutti, cosa vuoi che cambi un panino dal McDonald’s”? Cambia tutto, invece, perché parte da te questa potenza, questa scelta».

La scelta di cambiare abitudini e di non farsi travolgere dal consumismo è una vera ribellione.

«Questa sicuramente per me è già una grande ribellione. Sicuramente ritornare a visitare i paesaggi naturali, andare a rispettare in prima persona dei panorami boschivi, questo fa parte di tanta ribellione; Buddha, la ribellione più grande l’attribuiva a colui che segue il charma, solo seguendo il proprio destino può arrivare all’illuminazione. Quindi, il vero ribelle è sempre stato una gran gentil persona; se pensiamo a Gandhi, se pensi a persone anche nel campo lavorativo, Einstein è stato un grande ribelle, ha creato un grande ponte quantistico».

La ribellione tu come pensi di portarla, all’interno di quello che è la tua arte, nei tuoi monologhi e le tue poesie? 

La ribellione nel campo musicale, nel campo artistico, sicuramente è nella padronanza del linguaggio e nel non essere schiavi del linguaggio, usare una lingua e padroneggiarla, conoscere i termini ti rende incorruttibile. Se io dico una determinata parola e ne conosco l’origine, so che sono inattaccabile; se io ti dico, che ne so, una parola di cui non conosco bene da dove viene questa parola, cosa genera, là si crea anche il fraintendimento, perché comunque sia rimane tutto su una rete di educazione, cioè tutto educa».

Qual è il ruolo della musica in tutto questo?

«Io adesso ti apro una parentesi molto in voga in quest’epoca, dove si è parlato se la musica influenza la scoietà; sì, è ovvio, ma certo, tutto educa, come puoi escluderti? Se tu canti e parli bene dei fiori, come pensi che non possa coinvolgere, non possa influenzare chi ti ascolta? La domanda è chi ti credi di non essere per non farlo? Come pensi di escluderti? Non è così, perché io che ho ascoltato De André, Battisti, Battiato è ovvio che mi hanno influenzato, su qualsiasi cosa, se faccio meditazione è grazie a Battiato, se ascolto canzoni di storie e spari, è ovvio che poi non gli do tutto questo valore e potenza, ma pistola e sparo come se niente fosse, perché sono stato educato così, perché sembra un gioco là fuori, no? Quindi, per me, che invece tutto influenza, perché siamo tutti una grande rete sociale, emotiva e spirituale, la ribellione oggi è sicuramente padroneggiare la parola».

Le parole sono importanti, poi, tu  ne hai fatto un lavoro, hai fatto un modo di esprimere te stesso. Però, questa consapevolezza, effettivamente, non è che è stata gratuita, te la sei guadagnata sul campo, attraverso i viaggi, zaino in spalla. C’è un brano molto particolare dell’album, che è Susy, dedicato a tua madre; io volevo sapere: cosa ha pensato tua madre quando da Molfetta sei partito per scoprire l’india?

«In realtà, quando io sono andato via di casa, avevo già fatto un lavoro omeopatico di anni e anni, avevo messo sempre, sai come fanno i mentalisti? Che ti portano, poi, a rispondere come loro volevano, perché ti hanno preparato, ti parlo quaranta ore dicendo “bianco” e poi ti faccio scegliere il latte, perché tu vai a scegliere il latte, perché ti ho intortato con il bianco. Ho fatto più o meno un lavoro così con i miei; innanzitutto fortificando dentro di me una forte educazione, che ho sempre ammirato, l’educazione, cioè essere educato mi sembrava sempre un gran risultato nella vita e tornare sempre a casa sano e salvo, bello pulito, lucido, senza mai danni, senza mai chiamate di notte, i miei hanno anche fatto in modo che si fidassero di me, non ho mai portato problemi, il mio andare in giro, che è sempre stata una mia grande caratteristica, perché sono andato via di casa a 14 anni, poi sono ritornato a 18, ma a 18 sono andato a vivere in India, ho sempre fatto capire ai miei che non ero loro».

 A 18 anni non è una scelta così usuale. 

«No, magari no, perché magari chi non lo fa è perché sta bene; nel mio caso, in realtà, tutto è nato da un forte sintomo di malessere, non sono mai stato male, però sono andato a prenderlo prima che avvenisse, sapevo che mi sarei ammalato, me lo sentivo proprio dentro e se una piccola repressione può diventare un grande cancro, ecco, bisognerebbe arrivare qua prima a prendere quella piccola repressione e dire: ok, qua c’è qualcosa non va, bisogna togliere subito. E poi, niente, io ho sempre fatto capire che me la cavavo»

Chi hai trovato che ti ha cambiato la vita? 

«Gli indiani, che ti stravolgono tutti i piani. Io sono andato lì, convinto di trovare Buddha, capito? Perché erano quattro anni e mezzo che praticavo un buddismo feroce, induismo, meditazione, peyote, facevo un botto di roba, e quindi quando sono andato là era perché pensavo di trovare delle persone simili a me; da me, in provincia, nessuno faceva meditazione yoga, nel ’96, se tu parlavi di yoga, eri un coglione, capito? Adesso sono gli influencer, quasi, a farlo, ma noi che lo abbiamo portato in Italia, non siamo mai stati visti bene, eravamo i fricchettoni, gli hippies, i deviati, i tossici, no? E invece, era una parte forte della spiritualità e quindi in India mi aspettavo quello; in realtà, c’è, è vero, però non è la prima cosa che ti arriva; la prima cosa che ti arriva è la disperazione, la povertà, la malattia; la cosa bella dell’India è che se riesci a scavallare questi primi tre passaggi, c’è poi il premio, ma, come sempre, come tutto, non c’è mai il premio all’inizio, c’è prima il percorso; e questo percorso che l’India non sa bene, te lo mostra subito. Quindi, è stato devastante, perché io mi sono accorto, quando sono arrivato in India che ero piccolo, ma oramai era troppo tardi e dovevo crescere, il che è stato bello».

Oggi, alla luce di tutto questo, ti puoi ritenere una persona felice o soddisfatta? 

«Soddisfatta no, perché ho le soddisfazioni che crescono quotidianamente, che devo alimentare, cioè, mi do sempre… però, felicissimo, sono estremamente felice, io non riesco più a essere triste; ci provo, so che venderei un sacco di più, ma non ce la faccio, so’ troppo felice!».

In effetti, i cantautori tristi sono quelli che effettivamente hanno più appeal e che producono di più..

«Cazzo, ma non sai… sono poesie, romanzi… la nostalgia paga di più, dai, è inutile… è sempre stato così. Ecco, magari, anche qui essere un’anomalia mi piace».

Nel disco c’è anche una canzone, Ulay, che parla della rinuncia alla competizione; anche questo è un valore particolarmente ribelle, ribellissimo, per citare il titolo dell’album? 

«Perché, il primo atto della ribellione autentica è la rinuncia, cioè, non puoi iniziare una ribellione, una rivolta, se non rinunci; rinunciare significa avere la consapevolezza che puoi farne a meno; e farne a meno, oggi, in un mondo super consumista, in un mondo dove, magari, se hai più follower, se hai più soldi, se fai vedere, questi ostentamenti, ecco che la rinuncia è una ricchezza; questo me lo ha insegnato l’India, perché in India la ricchezza si basa su quanto tu sai rinunciare. È proprio viceversa rispetto all’Occidente, un uomo più rinuncia, più è ricco, più ha la capacità di essere ricco, proprio perché quella rinuncia lo rende ricco, in qualche modo».

La rinuncia che ti è pesata di più, qual è stata? 

«Guarda, sicuramente, quella che mi ha affaticato di più è stata quella di rinunciare a dei divertimenti edonistici, quella roba là, quella tentazione di droga, festa, donne, amici, giochi, quelle notti cattive; quella roba lì non è che mi ha pesato, però sicuramente l’uomo è sempre tentato dalla goliardia, dal piacere fisico, dall’edonismo, dal buon cibo,… anche la rinuncia ai cibi è stata, forse, ancora più grossa di quella al divertimento, adesso che ci penso, perché sono uno che mangia solo verdura e frutta e a volte pesce e quindi faccio una dieta paleo molto estrema e a volte, sai, che noi che siamo sempre in tour, sempre in viaggio, andare nei posti e non poter mangiare dei piatti tipici che hanno fatto la storia, perché tu non mangi quella roba là…, però ce l’hai quella tentazione, quella roba che fa gola, cazzo… ecco, questa roba qua è forte, però mi accorgo che ogni volta che vinco, ne cresco, sono inossidabile».

Come ultima domanda parafrasiamo sempre il titolo del nostro magazine e chiediamo come vede il “Domani” Gio Evan, quali sono le tue speranze e le tue paure?

«Il Domani è costruzione, in realtà io sto cercando di fare un progetto di creare una bolla, voglio creare una bolla forte, uno scudo; sento che mi basta un pezzetto di terra, dove poter creare uno scudo, non so dove ancora, però ho le visioni scombussolate, mi piacerebbe creare  un luogo dove qualcuno possa permettersi di essere fragile, debole, perché sa che lì nessuno lo attaccherà. Spero di riuscirci, un giorno».

Intervista esclusiva a cura di Simone Intermite
Articolo precedenteIl significato profondo di “100 Messaggi” il nuovo singolo di Lazza. Un viaggio emotivo nel dolore
Articolo successivoLe sneakers di Burger King sono il nuovo, inaspettato, must to have
Direttore editoriale del portale Domanipress.it Laureato in lettere, specializzato in filologia moderna con esperienza nel settore del giornalismo radiotelevisivo e web si occupa di eventi culturali e marketing. Iscritto all’albo dei giornalisti dal 2010 lavora nel campo della comunicazione e cura svariate produzioni reportistiche nazionali.