« In questi mesi tutto è cambiato ma sono abituato a stare in casa, gli artisti non devono andare in ufficio, ora c’è una nuova routine famigliare da riorganizzare con mia moglie e con mio figlio». Sembra essere passato molto tempo da quando il cantautore novarese Cristian Bugatti, in arte Bugo, è stato al centro del ciclone mediatico a causa del plateale abbandono del palco del Festival di Sanremo 2020 dopo uno scontro con il suo partner artistico Morgan; eppure solo due mesi fa l’italia intera si chiedeva dove fosse finito Bugo, e si divideva tra commenti social e meme virali. Ciò che resta di quel momento oltre le polemiche ed il rumore tipicamente sanremese è l’album omonimo “Bugo: Cristian Bugatti” edito da Mescal Music, un progetto discografico che racchiude tutta l’essenza di un nuovo percorso artistico e musicale sviluppato su nove brani dal sapore contemporaneo baciati dalla preziosa produzione Simone Bertolotti e di Andrea Bonomo, che a quattro anni dal precedente lavoro “Nessuna scala da salire” e a due dalla raccolta “RockBugo” racconta la crisi di mezza età di un rocker che insegue i suoi sogni, partendo dalla provincia novarese per arrivare ai più importanti palchi d’italia e ad i grandi network televisivi e radiofonici con la sincerità che lo contraddistingue. Quella di Bugo è la storia di una lunga gavetta fatta di sacrifici e di piccole conquiste che parte nei primi anni novanta e percorre strade parallele, anche incomprese, rischiando tutto quando ancora non esisteva la cultura delle produzioni indie e che nel tempo ha saputo evolversi cogliendo le sfide dei tempi moderni oltre l’ambizione di fare il cantante delle canzoni inglesi. Noi di Domanipress abbiamo avuto il piacere di ospitare nel nostro salotto virtuale Bugo per parlare con lui crisi del settore artistico in tempi di Covid-19, di percorsi umani e di artistici e di rivoluzione digitale in musica tra ricordi e nuove prospettive.
Uno dei brani evergreen della tua discografia si intitola “Casalingo”, come stai vivendo tra le mura domestiche questo periodo difficile ?
«Sono abituato a stare in casa, gli artisti generalmente non devono andare in ufficio, quindi in un certo senso la “reclusione” non mi pesa più di tanto. Non a caso, la canzone “Casalingo”, che è del 2002 ma che mi pare ancora valida, ha un ritornello che fa così: “Stare in casa è qualcosa di spettacolare!”. Non vivo da solo, c’è una nuova routine famigliare da riorganizzare con mia moglie e con mio figlio. Il che può essere anche una bella occasione per stare di più insieme».
Tornando ad oggi e alla musica l’album che porta il tuo nome CRISTIAN BUGATTI (dopo il discusso debutto sanremese) ti sta offrendo delle belle soddisfazioni, ogni traccia sembra essere perfetta per un passaggio radiofonico senza però abbandonare la tua ironia poco maistream e nella tracklist trova spazio anche un brano in duetto con Ermal Meta. Come sei riuscito a raggiungere questo equilibrio?
«Provengo da vent’ anni di carriera, con un percorso di crescita. La vera sfida per me è sempre stata quella di guardare avanti, mettendomi in discussione, cercando nuove idee. CRISTIAN BUGATTI è un disco che segna una transizione importante per me: rimanere Bugo ma guardando avanti. Non a caso il titolo del disco, col mio nome e cognome, era un modo semplice per presentarmi al grande pubblico sanremese. Presentarmi per quello che sono e per quello che voglio essere. Il disco infatti viaggia tra ricordi passati e pensieri sul futuro. È come se fosse una sorta di analisi del mio percorso. La sfida, tornando alla tua domanda, è stata proprio quella di restare in equilibrio tra vecchio e nuovo. Anche dal punto di vista strettamente musicale, il suono è molto classico, si può definire col vecchio termine “musica leggera”, ma non è un disco vintage, le sonorità scelte sono contemporanee e classiche al tempo stesso. Abbiamo lavorato molto su questi aspetti, testuali e sonori. Non c’è tutta questa ironia, c’è piuttosto molta varietà negli argomenti, che possono piacere, mi auguro, anche ad un pubblico più ampio. Rimango sempre Bugo, c’è il mio stile, la mia voce che è il marchio distintivo».
In un brano canti “Che ci faccio su questo pianeta; sono un alieno …” Quando è stata l’ultima volta che ti sei sentito lontano dal mondo?
«Io credo che l’alienazione sia solo una delle condizioni del vivere moderno. 20 anni fa mi sentivo più spesso “alienato”, ma ora non è una cosa in cui mi rispecchio molto, è solo una delle varianti della vita. Mi sento molto attaccato al mondo, al vivere contemporaneo, non sono un nostalgico, vivo bene la mia epoca. Tuttavia talvolta faccio fatica a comprendere alcuni avvenimenti e alcune situazioni, il che mi fa sentire “un alieno”. Ma credo che molte persone ci si ritrovino, ogni tanto, in questo stato di “lontananza”. Fa parte della vita, come la gioia e la rabbia. La canzone “Un alieno”, che tu citi, è molto vitale, non c’è disperazione».
Sicuramente sei spesso vicino ai tuoi followers ultimamente sei molto attivo sulle piattaforme social, ti piace documentare la tua vita. Spesso si assiste ad una resistenza da parte di altri tuoi colleghi rispetto agli strumenti digitali …
«Sono sempre stato molto attivo sui social, non solo ultimamente. Ho aperto la mia prima pagina Facebook nel 2008, e il mio primo Twitter nel 2009. Poi entrambi li ho chiusi e ne ho aperti altri. Ad esempio nel 2014, mentre vivevo ancora in India, ho aperto una chat WhatsApp con 100 fan. Un’esperienza incredibile, se pensi che io vivevo a New Delhi e le 100 persone che seguivano erano in Italia. Poi è arrivato Instagram e via di seguito, ho aperto ancora Facebook. Di recente ho riaperto anche Twitter e un canale nuovo su TikTok, che è una piattaforma ritenuta “adolescenziale” ma mi incuriosisce. Questo per farti capire che la comunicazione è sempre stata fondamentale per il mio lavoro, non è solo svago. Anzi. Utilizzo i vari canali in modalità differenti. Twitter è molto libero, mentre Facebook e Instagram sono più formali. Recentemente ho anche deciso di utilizzare la community per fare post e stories anche su YouTube e abbiamo già bei risultati. Quindi è vero, sono molto attivo, ma, ripeto, non documento solo alcune cose della mia vita (non documento la mia vita strettamente privata, ad esempio), perché i social li trovo utili per veicolare il mio lavoro e i valori che sono legati alla mia musica. Per quello che riguarda i miei colleghi, io penso che ognuno debba usare i social nel modo in cui lo ritiene più congeniale».
Recentemente hai parlato in un post di Star Wars; qual è il tuo personaggio preferito della saga e perché?
«La Apple il 1° di Aprile ha rilasciato l’ultimo della saga l’ho acquistato e ho visto l’episodi con il mio bimbo piccolo. Ho sempre amato molto la saga, fin dall’inizio nel 1977 (avevo 4 anni!). Tutti i personaggi hanno un loro perché, sono inseriti in un contesto che li rende tutti interessanti. Amo molto le figure dei Jedi, perché il bene, a differenza del male, non è retorico. Il bene è uno sforzo continuo per cercare di migliorare il mondo e per migliorarsi».
Quando volevi fare il cantante delle canzoni inglesi erano gli anni novanta, oggi il mercato discografico è radicalmente cambiato e a ben guardare anche “Sincero” parla di questo mutamento con un tono intelligente e sarcastico; hai recentemente inaugurato una tua playlist su Spotify con i tuoi brani preferiti. Tra tutti qual è quello che ti descrive meglio? Oggi è ancora possibile vivere come una vera rockstar?
«I brani della playlist servono per tenere compagnia a chi mi segue durante questi giorni di quarantena, non a caso la playlist ha l’# IORESTOACASA. È una playlist in continuo aggiornamento e non è recente, l’ho aperta due anni fa e muta continuamente. Ad esempio, quando era uscita la notizia della mia presenza a Sanremo, avevo fatto una playlist con solo brani sanremesi. Di quella attuale non ho una canzone preferita: esprimono tutte diversi stati d’animo. Personalmente mi piace molto come si è sviluppato il mercato discografico, penso appunto al fatto di poter fare playlist, al mercato digitale. Io non sono uno nostalgico del vinile, mi piace, ne ho qualcuno a casa, ma vivo con entusiasmo il nostro tempo. Mi interessa la canzone, non il supporto, che sia CD, digitale o vinile. Mi interessa il contenuto. E con il digitale posso viaggiare davvero ovunque, scoprire nuova musica e riascoltare i grandi classici».
A ben guardare la tecnologia e l’elettronica è entrata prepotentemente anche in un tuo album chiamato “Contatti”. Sei un esempio di digital trasformation in musica…
«Ho vissuto appieno questo passaggio verso il digital e l’era internet. Quando ho iniziato, col primo album nel 2000, non c’era internet, erano gli ultimi anni del pre-digitale. Ero giovane, avevo 27 anni e vivevo la musica e la vita del cantante con tutti gli eccessi annessi. Poi mi sono stancato, perché non si può fare il rocker maledetto per tutta la vita, mi sembrerebbe ridicolo, bisogna crescere ad un certo punto, per non diventare dei “pupazzi” in balia del propio ego. E così, nel 2008, in simultanea con questo mio cambiamento interiore, sono arrivati internet, MySpace e poi Facebook. E io ho accolto tutta questa novità. Un 20enne oggi può certamente vivere da rockstar, a patto che poi cresca, per non rimanere imprigionato in un cliché».
Guardando la playlist dei brani di Bugo invece c’è un pezzo a cui ti senti maggiormente legato e che non ha avuto la giusta visibilità che meritava?
«No, non penso che ci sia un brano che avrebbe meritato più visibilità. Quel che è stato, è stato. La visibilità non rende un brano più o meno bello. Le canzoni esistono sempre e comunque, al di là della notorietà. Chiunque è libero di andare a ricercare le mie vecchie canzoni, cosa che in effetti sta avvenendo e ne sono felice perché mi scrivono in molti e sono tutti entusiasti di scoprire canzoni che non conoscevano».
L’anno scorso hai scritto anche un libro edito da Rizzoli intitolato “La festa del nulla” in cui hai raccontato la tua storia di giovane di provincia che sognava l’universo londinese in contrapposizione con la “provincia bastarda” rappresentata dal tuo paese d’origine nella provincia di Novara … Che rapporto hai ora con il tuo paese? In un’intervista sul nostro magazine il regista Pupi Avati ha ritrovato nell’oppressività della provincia una sana ribellione verso un tracciato già predestinato che può portare a realizzare grandi progetti … sei d’accordo con questa teoria
«Si, effettivamente chi cresce in provincia ha una “rabbia” e una particolare voglia di arrivare. Per me è stato cosi, e così è per il protagonista del mio libro. Quella voglia di fuggire dal “nulla”, dalla nebbia, dall’anonimato. Io sono cresciuto a Cerano, un paese a due passi dal Ticino, nel novarese. Ci ho vissuto 25 anni, fino alla fine degli anni ‘90, quando poi sono letteralmente scappato per raggiungere Milano, la metropoli in cui cercare di realizzare la mia ambizione di diventare un musicista professionista. Ora non tornerei più a vivere a Cerano, ma ho ricordi bellissimi e molti amici».
Nel libro trova spazio anche la figura di Barbara, il grande amore del protagonista … Quanto c’è di autobiografico in questa storia?
«In realtà Barbara non esiste, è un personaggio inventato, come tutti i personaggi del libro. Cosi com’è inventato il viaggio a Londra. L’unica cosa autobiografica sono le strade e i luoghi di Cerano, il paese in cui sono cresciuto».
Ad un certo punto della tua vita – per amore – qualche anno fa ti sei anche trasferito per un periodo a New Delhi, cosa ti ha lasciato quel periodo?
«Quel trasferimento è durato 4 anni, quindi non pochissimo. E durante quei 4 anni sono riuscito anche a fare uscire un disco e a fare un tour in Italia. L’India è un paese incredibile, difficile ma entusiasmante. Siamo in oriente, quindi completamente diverso che vivere in Europa, per clima e tradizioni. Però ad esempio non mi sono mai interessato di meditazione, yoga e annessi, non fanno per me. Così come non amavo la cucina indiana. Ho tuttavia un ricordo bellissimo, anche perché in India mi sono sposato».
I viaggi, la musica, l’amore e Sanremo … Gli obiettivi che ti eri prefisso da ragazzo li hai raggiunti tutti o riprendendo il titolo di un tuo album c’è ancora qualche “scala da salire”?
«Esagerando posso dirti che ogni giorno ho micro-obiettivi, qualcosa da raggiungere. Poi ci sono gli obiettivi più grandi, che man mano cambiano perché la vita riserva sempre qualche sorpresa, quindi bisogna essere anche pronti anche a rivedere i piani. Io credo molto nella forza dei sogni, non bisogna mai smettere di essere ambiziosi, di cercare di superarsi. La vita è una scala continua, ed è questo il bello della vita: la sfida quotidiana che ci permette di migliorare».
Ritornando ad oggi e all’emergenza sanitaria si parla spesso della necessità di avere delle riposte dal governo per i lavoratori dello spettacolo… Molti artisti si stanno mobilitando per sensibilizzare verso questo tema. Quali potrebbero essere secondo te le misure più utili da adottare?
«Io credo che le persone vanno fatte lavorare; mi riferisco ai medici, agli scienziati, ai politici, a tutti coloro che ogni giorno si impegnano per cercare di migliorare la situazione. Eviterei qualsiasi tipo di polemica, come purtroppo leggo in giro. E non credo nemmeno che bisogna far pressione facendo troppe domande e pretendendo risposte. Bisogna immedesimarsi in quelli che tutti i giorni lavorano per noi. Sono fiducioso che ogni categoria di lavoratori, dipendenti e autonomi, è stata presa in considerazione e che ci vuole calma e pazienza perché viviamo una situazione unica».
Recentemente hai ammesso di non voler esporti in concerti live in streaming, per onestà intellettuale hai preferito accantonare gli impegni promozionali, una scelta difficile quanto coerente
«Siamo in quarantena da quasi due mesi, e fin dai primi giorni mi sono rifiutato di suonare live nelle dirette. Leggevo le prime notizie di persone che morivano per il coronavirus e non me la sentivo di mettermi a cantare. Non l’ho fatto per “onestà intellettuale”, l’ho fatto per rispetto dei morti e dei famigliari delle vittime, per compassione».
Niente flashmob dal balcone e inni d’Italia dunque. Il silenzio certe volte sarebbe la strada più giusta da perseguire…
«Ho letto troppe cose disdicevoli in quei primi giorni, che c’era troppo allarmismo, che le attività solidali erano “buoniste”. Insomma, invece di avere compassione per la vita altrui, qualcuno finiva nel cinismo e nell’egoismo. Io ho deciso di non cantare e di non suonare in dirette per un semplice motivo di umanità. Ora, dopo due mesi, la penso allo stesso modo, anche se mi spiace non accontentare tutti coloro che mi seguono e che mi chiedono di suonare per loro nelle dirette streaming. I ragazzi capiscono e rispettano la mia scelta di silenzio, e per questo sono grato a tutti. Però ci sto ancora pensando, credo che ora, dopo due mesi, forse posso pensare di accontentarli, perché se la mia musica può fare del bene, se la mia musica può tenere compagnia, allora forse sarebbe giusto fare qualcosa per loro. Vedremo…».
Come ultima domanda parafrasiamo sempre il titolo del nostro magazine e chiediamo come vede il “Domani” Bugo, quali sono le tue speranze e le tue paure?
«Non ho particolari paure del Domani, bisogna sempre armarsi per difendersi da tutte le paure. La mia speranza? Quella di poter riportare presto mio figlio al parco, è una delle attività che mi manca e che reputo più importante, sopratutto per lui».
Intervista esclusiva a cura di Simone Intermite
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