Eugenio Finardi, Milano classe 1952, è da sempre considerato l’extraterrestre della musica italiana, uno dei capostipiti del rock nostrano inserito di diritto nella lista dei migliori cantautori, quelli capaci di valicare i confini del tempo e delle mode e di catturare la realtà fondendola tra note e parole che smuovono la coscienza dell’opinione pubblica conducendola verso la  strada della ribellione ai sistemi e alle regole precostituite. Cosmopolita, cittadino del mondo senza barriere, figlio d’arte dal doppio passaporto italiano ed americano, uno dei suoi pregi più riconoscibili è da sempre quello di  fondere significato e significante emozionando chi l’ascolta tanto da essere amato da pubblico e critica ma anche da molti suoi colleghi primo tra tutti il maestro Fabrizio De Andrè che lo ha reclutato per una sua tournèe e l’amico Ivan Graziani che per primo ha creduto nel suo talento. Recentemente dopo aver partecipato al concerto di Luciano Ligabue  per un’emozionante duetto sulle note di “Noi due” ed aver calcato i palchi più prestigiosi d’europa il cantautore milanese è tornato in studio per un’audace progetto musicale intolato “Euphonia”, una suite che incorpora i brani in un “flow”, un flusso ininterrotto che, attraversando vari stati emozionali, accompagna l’ascoltatore ad uno stato quasi trascendentale. Un’esperienza uditiva e sensoriale che va al di là della normale sequenza di canzoni, legandole e fondendole nell’improvvisazione e nel mistero dell’enarmonia. Il progetto è frutto dell’intesa con due straordinari musicisti. Mirko Signorile  le traiettorie del sax di Raffaele Casarano, in una  sapienza armonica costruita su congiunzioni sorprendenti. Noi di Domanipress abbiamo avuto il piacere di  ospitare nel nostro Salotto Digitale Eugenio Finardi per parlare con lui di musica come strumento per abbattere i confini culturali ed ideologici tra ricordi e prospettive future.

Il tuo nuovo singolo si intitola Katia e racconta di un rito di passaggio inevitabile: il primo indimenticabile Amore, quello inespresso ma struggente.

«Si volevo celebrare il primo vero grande amore, quello puro e totalizzante che secondo me è quello che si vive durante l’adolescenza, quando non si è ancora ne adulti ne bambini. Nel mio caso il mio primo batticuore è stato proprio con una ragazzina che si chiamava Katia, a cui ho dedicato il pezzo che apre il progetto Euphonia. Lei abitava vicino alla scuola che frequentavo, avevo preso l’abitudine di seguirla quando usciva di casa, la osservavo riflessa sulla vetrata di una banca che era poco più avanti rispetto al suo partone e ogni mattino era mia abitudine poterla osservare di nascosto…credo che lei non se ne sia mai accorta».

Come si è sviluppata la genesi del brano?

«Mi interessava indagare in musica l’ aspetto primordiale dell’amore, credo che sia uno degli aspetti più universali ed intergenerazionali della nostra vita. Cambiano i tempi, i luoghi, gli usi e i consumi ma l’ideale platonico dell’amore appartiene a tutti, indistintamente. Può essere definito come una forza interiore che si sente scoppiare dentro come una bomba, non è razionale eppure ti travolge e ti cambia la vita».

Con il passare del tempo com’è cambiato il tuo rapporto con l’amore?

«Oggi l’amore per me assume diverse forme, può essere quello verso i figli, verso i propri amici e con la maturità dovrebbe allargarsi al’ amore per la terra che abitiamo e  tutta l’umanità intera anche se poi questo non avviene…».

Cosa ci blocca rispetto a l’ideale irraggiungibile di amore universale?

«L’amore è un sentimento conflittuale, difficile, da contendere tra le parti e spesso frammentato. Credo che sia un attitudine che si dovrebbe ricercare maggiormente, oltre i propri egoismi. Io sono monogamo ma credo che infondo tutti dovremmo regalarci la libertà di innamorarci più spesso…Anche l’amore carnale dovrebbe essere sia per gli uomini che per le donne più libero e accessibile. Durante il settecento i poeti erano soliti scrivere lettere a donne sposate seguendo la passione oltre la retorica e anche la figura storica del cavalier servente inteso come colui che in maniera extraconiugale accompagnava  la dama, servendola galantemente in tutto ciò che potesse occorrerle, è un esempio di questa tendenza. L’amore moderno invece è possessivo, spesso anche represso e questo comporta ad episodi di violenza anche estrema. D’altronde dalla guerra di Troia la passione è spesso stata la miccia che ha fatto accendere le polveriere talvolta anche in maniera indiretta…».

Dall’amore alla Chrétien de Troyes a quello per la musica. Il tuo utimo progetto lontano dalle logiche commerciali è un unicum di emozioni tra le note…

«Euphonia è un brano che dura dura circa un ora, un esperimento antitetico rispetto alle produzioni presenti, un unicum costituito da diverse novelle musicali legate tutte da un tema. Prima di pensare a questo progetto ho riflettuto sulla mia produzione passata e mi sono accorto che nelle canzoni ho raccontato la mia vita e le dinamiche della mia generazione. Mi interessava l’idea di creare una suite unica per intendere un percorso di vita artistica ed ideale che non avesse  interruzioni».

La tua è da sempre stata una produzione musicale pedagogica, oggi il cantautorato impegnato è andato in soffitta a favore di ritmi veloci e tematiche poco impegnate…Cosa è andato storto?

«La capacità di fruizione della musica e l’attenzione del pubblico è radicalmente cambiata. Oggi bisogna essere concentrati, reprimere un concetto tra le poche righe di tweet o tra i trenta secondi di TikTok. Io sono abituato a sviluppare un discorso anche prendendomi dei tempi piuttosto lunghi».

La musica di oggi può ancora essere ribelle?

«Credo che oggi la musica sia ancora ribelle e che si occupi del sociale in maniera attiva. Gli ideali politici e sociali sono radicalmente cambiati. A me piaceva scrivere canzoni utili al movimento della storia e alla progressione del nostro paese. Mi ha sempre interessato produrre canzoni che avessero una morale, non ho tollerato il concetto di musica leggera. Mi ha divertito l’ironia geniale di Di Martino e Colapesce che con il testo di “musica leggerissima” hanno voluto mettere alla berlina questa concezione. Pensare alla musica popolare come musica leggera ci induce a due errori: il primo è quello di ritenere la musica classica “pesante” e poi quello di sottovalutare la produzione pop, di non renderle la giusta importanza che merita. Non nego che poi possa esistere per ognuno di noi anche una “musica pesante”».

Qual è per te?

«Generalmente quella che non tollero; la bossanova ad esempio non riesco ad accogliere i suoi accordi. Credo che si tratti di una propensione neurologica motivata da cio che hai imparato ad ascoltare. Io sono nato dentro uno strumento musicale, mia madre era una cantante lirica, non ha mai smesso di cantare anche quando mi portava in grembo. Probabilmente reagisco male alle atmosfere che non piacevano a lei. Se ci pensi può esserci un uso anche  irritante della musica, esempio di questo è il suo utilizzo nella base di Guantanamo dove si utilizzava l’heavy metal per intorpidire le menti».

Il rap oggi, come il cantautorato qualche anno fa, è lo strumento di protesta con cui le nuove generazioni raccontano se stesse…Cosa ne pensi di questo nuovo linguaggio?

«Io abito a Milano in zona San Siro, ad un chilometro da Piazza Selinunte dove si è sviluppata una scena rap molto radicata nata dal basso che costituisce uno strumento di riscatto sociale forte. Credo che siano la perfetta fotografia di questo momento storico. Sicuramente la missione pedagogica che noi cantautori perseguivamo negli anni ’70 non esiste più. Noi sognavamo un mondo migliore ed una rivoluzione che poi non è mai arrivata o che è arrivata nei modi che non ci aspettavamo…».

Di cosa ha assolutamente bisogno oggi lo scenario musicale italiano?

«C’è sete di assoluta verità…quando una bella canzone ti arriva al cuore e perchè testimonia qualcosa di reale che vivi o che percepisci sulla tua pelle. Mi è piaciuto molto Ghali che in “Cara Italia” canta “Quando mi dicon: “Vai a casa! io rispondo sono già qua”. In tre minuti è riuscito a creare un racconto in cui tutte le persone, quali che siano le loro radici, possono riconoscersi. Io per primo ho vissuto questa condizione da metà americano mia madre mi vestiva diversamente dagli altri; lei era albina e aveva una carnagione chiarissima e per questo la scambiavano per tedesca, cosa all’epoca non molto gradita…Mi sentivo diverso, ero costantemente sotto il giudizio degli altri, nel mondo della musiva ed eravamo in pochi a condividere questa situazione. C’era Demetrio Stratos degli Aerea, Alberto Camerini e pochi altri. Ogni generazione trova i suoi malesseri ed il suo modo di affrontarli».

Molti anni fa con il brano “Dolce Italia” hai affrontato il tuo malessere elogiando il nostro paese sovrapponendo in negativo a “quell’America senza gioia, sempre in vendita come una troia” parole forti che denotato un amore smisurato per il tricolore…Oggi sei ancora così innamorato dell’Italia?

«Posso dirti che è diminuito ancora di più il mio interesse per l’America che mi ha deluso profondamente. Io sono nato  americano e tutto il suo sistema legale e costituzionale mi appartiene per diritto e per questo mi sono potuto rendere conto che l’America da porta bandiera del progresso e del futuro è diventato un paese che da promotore della democrazia e del progresso si è trasformato in un paese totalitario in cui le forze più retrive conservatrice e disoneste stanno prendendo potere. La corte costituzionale sta svendendo i principi cardine della liberà, viviamo in un periodo in cui molti nodi stanno arrivando al pettine. Questo accade perché ci sono troppe contraddizioni…Si fa presto a fare gli ecologisti accendendo l’aria condizionata o viaggiando comodi a bordo dei SUV».

Eugenio Finardi

La situazione Italiana invece come la reputi?

«Siamo fortunati in Italia perchè è possibile ancora discutere, ed oggi abbiamo forse un barlume di speranza per cambiare le cose, questo in america non avviene più. In questo periodo è necessario di parlare di temi importanti che riguardano la nostra vita privata come l’aborto, la possibilità di decidere per la propria morte e la liberalizzazione della cannabis…Sono tutti piccoli attacchi alla libertà che stiamo subendo come se fosse un’erosione continua ed inarrestabile per questo è tempo di reagire. Io ho vissuto un periodo fortunato in cui invece di parlare di guerra si parlava di libertà e diritti da conquistare. L’italia è un paese complesso che ha una storia antica che ci riporta alla memoria determinati ideali che ancora sono radicati».

A proposito di tempi che cambiano e tecnologia tu con “Amami Lara” sei stato il primo cantautore italiano ed attualmente l’unico ad aver dedicato una canzone d’amore ad un personaggio digitale e a portare questa esperienza sul palco di Sanremo…

«Si, sono molto legato a quel pezzo. Recentemente ho visto il film chiamato “Lei” che parla di un’esperienza simile. Oggi può accadere di innamorarsi di un entità che astratta e virtuale come l’intelligenza artificiale e di esserne completamente riassorbiti. In questo devo dirti che se non ho molta speranza sul futuro dell’umanita confido nell’intelligenza artificiale che libera da ormoni e di sospetto e ti dico che  potrà forse salvarci perché non ha bisogno di risorse finite come l’acqua o l’aria…».

Nonostante questo le connessioni più importanti restano le interazioni umane. In questo l’occasione di un concerto live è l’esempio di quanto si possa essere connessi gli uni con gli altri…Recentemente hai avuto modo di esibirti nella cornice insolita dell’areoporto di Malpensa e poi sei stato ospite al concerto di Ligabue…

«Sono state due esperienze molto emozionanti…I due anni di lockdown sono stati come un buco nella breccia temporale, sono un amante della fantascienza e mi piace definirli così. Per molti aspetti è come se fosse stato premuto il tasto stop, ad oggi quando parlo dell’anno scorso intendo un periodo che rimanda a tre anni fa…».

Che  resta del periodo che abbiamo attraversato, cosa abbiamo guadagnato?

«Abbiamo fatto i conti con le nostre emozioni è stato un momento di introspezione, anche il disco Euphonia è nato da questo vissuto. Oggi ci portiamo dietro la paura degli altri, personalmente non riesco ancora a vivere serenamente il momento post concerto quello degli abbracci, degli autografi e dei selfie. Ho settant’anni e vedo che molti miei colleghi si stanno ammalando, è capitato anche a Mik Jagger. Il momento dell’incontro con i fan è uno dei miei preferiti perché puoi confrontarti con chi ti ascolta e ti segue da anni…per me rinunciarci o dedicarmi in forma ridotta è un dolore. Come vivere un amore che non si può corrispondere…La vivo come quando fu scoperto per la prima volta l’HIV. Negli anni ’80 abbiamo scoperto che facendo l’amore era possibile morire. Questi sono tutti limiti al nostro modo naturale di vivere e alla possibilità di instaurare una conoscenza profonda degli altri. Siamo arrivati ad oggi isolati e connessi solo attraverso dei testi scritti su uno schermo di smartphone, come se fossimo degli alieni».

Riprendendo il titolo di un tuo celebre brano in cosa ti senti extraterrestre?

«In tutto in realtà…Uno dei mei conflitti più forti è quello di non disporre di una reale appartenenza territoriale e culturale, sono un apolide cresciuto a Milano da americano, riesco ad essere tante cose conosco modi di essere diversi e non riesco a definirmi con un unico genere. Anche linguisticamente più che il dialetto milanese preferisco ad esempio quello napoletano perchè mi sembra maggiormente musicale. Non sono un milanese imbruttito ma un alieno che non appartiene del tutto a nulla…».

Di altri “alieni” però ne hai incontrati penso ai tuoi amici Ivan Graziani, Carmelo Bene e Fabrizio De Andrè…

«Ci si cerca senza accorgersi, personaggi come Fabrizio De Andrè e Carmelo Bene erano davvero delle perle rare…».

Tra tutti chi ti manca maggiormente?

«Recentemente penso molto a Franco Battiato ma non posso dimenticare anche De Andrè, Gianni Sassi ed Ivan Graziani, sono tutte persone straordinarie, delle amicizie importnati che sono stato felice di vivere. Pensi che non possano finire mai invece la vita è spietata. Oggi ci sono anche poche occasioni per incontrarci tra musicisti ci sono troppo filtri tra ufficio stampa, manager e case discografiche spesso perdiamo anche il piacere di condividere esperienze tra di noi…Tutto è diventato industriale ed indivudalismo,  poco collettivo e troppo vincolato dal calcolo del business».

 

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Come ultima domanda parafrasiamo sempre il titolo del nostro magazine e chiediamo come vede il “Domani” Eugenio Finardi , quali sono le tue speranze e le tue paure?

«La mia visione del Domani non è rosea credo che il riscaldamento globale continui la sua corsa inarrestabile e abbiamo ben poche possibilità di fermarlo. Io forse farò in tempo a cavarmela ma, anche se sono sempre stato ottimista, oggi faccio fatica ad esserlo. Vedo nei social il pericolo di conflitto tra gli esseri umani e l’ombra di una democrazia vacillante ma seguo la lezione pragmatica di mio padre e dico per il futuro: “Questi saranno affari vostri”!».

Intervista Esclusiva a cura di Simone Intermite

 

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Direttore editoriale del portale Domanipress.it Laureato in lettere, specializzato in filologia moderna con esperienza nel settore del giornalismo radiotelevisivo e web si occupa di eventi culturali e marketing. Iscritto all’albo dei giornalisti dal 2010 lavora nel campo della comunicazione e cura svariate produzioni reportistiche nazionali.