“La memoria è una sfida urgente. Ecco perché porto a teatro parole che spaventano. Hitler non era solo il  mostro che conosciamo, ma un uomo. Ed è proprio questo a rendere la sua storia ancora più inquietante.”

Con queste parole taglienti e provocatorie, Stefano Massini introduce il suo ultimo lavoro teatrale, una rilettura potente e spiazzante del Mein Kampf. Un’opera che non si limita a essere una rappresentazione, ma diventa un terreno di riflessione collettiva sui pericoli della manipolazione, del potere e delle ideologie. Un tema di bruciante attualità, in un mondo che sembra non aver imparato abbastanza dai suoi errori.

Drammaturgo, romanziere, saggista e ora direttore artistico del Teatro della Pergola Massini è una figura che incarna il teatro come specchio della società. Nato a Firenze nel 1975, ha saputo conquistare le scene internazionali con opere come The Lehman Trilogy, celebrata a Broadway e vincitrice di prestigiosi premi come il Tony Award. Non è solo un narratore; è un instancabile esploratore delle pieghe più oscure dell’animo umano, capace di rendere il palcoscenico un laboratorio di idee e coscienze.La sua recente nomina alla guida del Teatro della Toscana segna una nuova stagione per questa storica istituzione, con un programma audace che punta a portare il teatro fuori dai suoi confini tradizionali. Tra le prime iniziative del suo mandato, una scuola popolare di scrittura creativa, pensata per avvicinare giovani e meno giovani all’arte della narrazione. Una scelta che riflette la sua visione del teatro come luogo inclusivo e accessibile, non elitario. “Il teatro è la memoria della società,” ama ripetere, e con questo spirito si prepara a lasciare un segno indelebile.

Ed è proprio in questa cornice che si inserisce il suo nuovo spettacolo, un progetto tanto ambizioso quanto necessario. Mein Kampf diventa sotto la sua lente uno strumento per interrogarsi su come l’orrore possa crescere nel silenzio e nell’indifferenza, trasformandosi in ideologia. Lo spettacolo, accolto con entusiasmo ma anche con polemiche, sfida il pubblico a guardare negli occhi la banalità del male.

In questa Video intervista esclusiva nel Salotto di Domanipress, Stefano Massini si racconta con la schiettezza e la profondità che lo contraddistinguono. Dal peso della responsabilità artistica al ruolo della cultura nell’epoca del disimpegno, ci accompagna in un viaggio che è, prima di tutto, una chiamata alla riflessione.»

Partiamo subito da questa scelta forte: perché portare in scena Mein Kampf oggi

«Parlare di provocazione è inevitabile, ma vorrei chiarire subito una cosa: si tratta di una provocazione necessaria, civile, politica. Portare in scena Mein Kampf a cent’anni dalla sua nascita significa affrontare uno dei testi più pericolosi e allo stesso tempo più fondamentali della storia moderna. È un libro che spaventa, che molti vorrebbero dimenticare, ma che dobbiamo conoscere.»

Conoscere questo testo significa esorcizzarlo?

«Si, penso che la conoscenza sia il solo antidoto contro il rischio che certi fenomeni si ripetano. Quel libro non è solo il manifesto ideologico di Hitler, ma anche il primo esempio di come la politica possa costruire consenso facendo leva sulle emozioni anziché sulla razionalità. Per Hitler, la politica doveva parlare “al petto, allo stomaco, alle viscere” – una lezione che oggi, in un’epoca dominata dai populismi, non possiamo ignorare.»

Non temi che questo possa essere frainteso?

«Certo, c’è sempre il rischio di essere fraintesi. Ma ignorare qualcosa non lo rende meno pericoloso. Al contrario, il silenzio amplifica il mistero e la fascinazione. Quello che voglio fare è decostruire quelle parole, mostrarne il funzionamento e le conseguenze, per impedire che possano esercitare nuovamente il loro potere seduttivo.»

Il tuo spettacolo si concentra proprio sulla potenza delle parole. Pensi che ci sia ancora una paura diffusa nei confronti di quel libro?

«Assolutamente sì. La paura è talmente forte che per decenni abbiamo scelto di mettere quel libro in silenzio, di censurarlo, come se ignorarlo potesse cancellarne il potere. Ma le parole hanno una forza seduttiva che non si può eludere. Un esempio simbolico è che il libro stesso, una volta scritto, portò alla liberazione di Hitler dal carcere: le sue parole conquistarono persino chi doveva sorvegliarlo.Il punto, però, è che non possiamo far finta che quel testo non esista. Freud diceva che l’essere umano, di fronte al trauma, reagisce spesso con la rimozione. Ma è proprio così che i traumi mettono radici ancora più profonde. Il mio lavoro vuole fare il contrario: portare quelle parole alla luce, decostruirle, comprenderle. Solo attraverso la conoscenza possiamo evitare che un fenomeno simile torni a manifestarsi.»

Nella pièce teatrale, hai scelto un approccio minimalista, evitando qualsiasi riferimento diretto a Hitler. Perché questa decisione?

«La scelta di una scena spoglia e di non utilizzare alcun simbolo riconducibile a Hitler – niente baffetti, svastiche o nomi – è stata ponderata. Una volta che introduci questi elementi, scatta automaticamente una condanna scontata, quasi meccanica. Io volevo spostare il focus sulle parole, renderle indipendenti dal loro autore per capire come potessero risuonare oggi.»

Tutto intorno a te è volutamente disadorno…

«Sul palco c’è un grande foglio bianco, simbolo di una storia ancora da scrivere. È un esperimento, un viaggio dentro le conseguenze delle parole. E la reazione del pubblico è incredibile: molte persone mi dicono che all’inizio si trovano d’accordo con certe affermazioni, per poi rendersi conto, con un brivido, di dove quelle stesse idee portino. Questo spettacolo non vuole offrire risposte, ma costringere a fare domande, anche scomode.»

Hai citato spesso la metafora del canto delle sirene e del legarsi all’albero della nave, come Ulisse. In che modo questa immagine si lega al tuo lavoro?

«Ulisse voleva ascoltare il canto delle sirene senza esserne trascinato, ma per farlo ha dovuto legarsi. Noi, però, non abbiamo sempre un albero al quale farci legare. Viviamo in un’epoca in cui i “canti” dei demagoghi trovano terreno fertile nel nostro malessere e nelle nostre insicurezze. Lo spettacolo racconta proprio questo meccanismo: iniziamo con parole apparentemente condivisibili, che parlano al disagio comune, ma poi ci troviamo di fronte alla mostruosità.»

La domanda cruciale è: come possiamo proteggerci? Come possiamo sviluppare gli strumenti per non cadere vittime di queste seduzioni?

«È una sfida che riguarda tutti, soprattutto i giovani, che sono il pubblico più colpito dal mio lavoro. Ricevo tanti messaggi da ragazzi che mi scrivono quanto sia stato illuminante confrontarsi con certe tematiche in modo critico, oggi dove i momenti di approfondimenti mancano è essenziale più che mai.»

Hai accennato al contesto politico attuale. Quanto pesa il parallelismo con ciò che viviamo oggi?

«Pesa moltissimo. Non c’è bisogno di fare nomi o esempi specifici: basta guardare i fenomeni globali degli ultimi dieci anni. I linguaggi dell’odio, della paura e del nazionalismo sono tornati a essere protagonisti. È come se non avessimo imparato nulla. Il teatro, in questo senso, può essere un luogo prezioso per stimolare il dibattito, per ricordare quanto le parole possano essere pericolose se lasciate incontestate.»

Il tuo lavoro sembra muoversi sempre tra l’attualità e la memoria storica. È una tua scelta consapevole?

«Assolutamente sì. Credo che il teatro abbia una funzione sociale insostituibile: deve essere specchio del presente, ma anche archivio del passato. Non mi interessa intrattenere, voglio provocare pensiero. E la memoria storica è uno strumento potente per capire chi siamo e dove stiamo andando. Raccontare storie, anche quelle più oscure, significa dare alle persone gli strumenti per affrontare la realtà.»

Hai mai pensato alle critiche? Portare Mein Kampf a teatro è un atto divisivo.

«Le critiche sono inevitabili e, per certi versi, benvenute. Se nessuno reagisse, significherebbe che lo spettacolo non sta facendo il suo lavoro. Io non voglio compiacere; voglio scuotere, mettere il pubblico a disagio. E se questo significa ricevere attacchi, li accetto con serenità. Non si può fare teatro pensando solo a essere applauditi.»

Qual è il messaggio finale che speri di trasmettere con questo lavoro?

«Il messaggio è che non possiamo permetterci di avere paura delle parole, nemmeno di quelle più pericolose. È necessario conoscerle, capirle e smontarle. Solo così possiamo impedire che si ripetano gli stessi errori. Il teatro, con la sua forza evocativa, può diventare uno strumento potentissimo di consapevolezza collettiva.»

Parliamo di te: quali sono le parole o i libri che hanno avuto un impatto trasformativo nella tua vita?

«Ce ne sono tantissimi. Uno che cito sempre è Oblomov di Gončarov, un romanzo che esplora il conflitto tra il desiderio di restare immobili e la necessità di affrontare la vita. Oppure La porta di Magda Szabó, che mi ha insegnato tanto sull’equilibrio tra razionalità e concretezza. Ma più in generale, credo che la letteratura sia il miglior manuale di sopravvivenza che abbiamo: ci offre strumenti per affrontare i conflitti, le paure, i sentimenti complessi.»

Se potessi parlare con un grande drammaturgo del passato, chi sceglieresti?

«Sicuramente Bertolt Brecht. È stato testimone diretto dei fatti che racconto e ha vissuto sulla sua pelle le conseguenze della storia. Gli chiederei cosa farebbe oggi, in un’epoca in cui i rigurgiti del passato sembrano riaffiorare con una pericolosa disinvoltura. Brecht era un maestro nell’unire la riflessione intellettuale all’impegno politico.»

Come ultima domanda parafrasiamo sempre il titolo del nostro magazine e chiediamo come vede il “Domani” Stefano Massini quali sono le tue speranze e le tue paure?

«La mia speranza è che torniamo a concepire il Domani come un progetto da costruire, non come qualcosa da subire. La paura è che ci stiamo abituando a vivere in un eterno presente, dimenticando che il domani dipende da ciò che facciamo oggi. Costruire il futuro richiede coraggio, visione e responsabilità tre cose che, purtroppo, oggi sembrano spesso trascurate.»

Intervista esclusiva a cura di Simone Intermite

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Direttore editoriale del portale Domanipress.it Laureato in lettere, specializzato in filologia moderna con esperienza nel settore del giornalismo radiotelevisivo e web si occupa di eventi culturali e marketing. Iscritto all’albo dei giornalisti dal 2010 lavora nel campo della comunicazione e cura svariate produzioni reportistiche nazionali.