Dal successo televisivo a “Le parole” su Rai3 e “In altre parole” su La7 fino al debutto a teatro con “Perfette Sconosciute”, lo storico dell’arte e divulgatore racconta il suo percorso: «La cultura non è un monologo, ma un dialogo. Però senza comunità rischiamo di costruire muri invece che ponti»

È uno dei volti più brillanti e originali della nuova generazione di divulgatori. Jacopo Veneziani, storico dell’arte, ricercatore alla Sorbona di Parigi e volto televisivo di programmi come “Le parole” su Rai3 e “Vita d’artista”, ha saputo conquistare il pubblico trasformando l’arte in un racconto vivo e accessibile, capace di appassionare anche chi non ha mai varcato la soglia di un museo. La sua scrittura elegante, i suoi interventi televisivi e la sua capacità di dialogare con i social network gli hanno permesso di costruire una comunità vastissima, composta da persone di tutte le età, accomunate dalla voglia di scoprire e di stupirsi.

Dopo il successo dei suoi libri e dei suoi progetti online, Veneziani porta ora il suo linguaggio anche sul palco, con lo spettacolo teatrale “Perfette Sconosciute”, prodotto da Savà Produzioni, in cui restituisce dignità e memoria a figure femminili rimaste troppo a lungo nell’ombra della storia dell’arte. Un progetto che non è solo un atto di giustizia culturale, ma anche un invito a guardare il presente con occhi nuovi, interrogandoci su chi stiamo dimenticando oggi.

Nel Salotto di Domanipress Jacopo ci ha raccontato il suo percorso, tra televisione, libri e teatro, ma soprattutto ha condiviso riflessioni profonde sul ruolo dell’arte come strumento di comunità e di resistenza in un tempo segnato da divisioni e conflitti. Un dialogo che, come spesso accade con lui, costringe a guardare avanti con uno sguardo lucido, che dal passato arriva al presente, sospeso tra speranza e inquietudine.

Jacopo, quando hai capito che l’arte non sarebbe stata solo un interesse ma la tua strada?

«Per me l’arte è sempre stata un linguaggio naturale. Fin da piccolo sentivo che nei dipinti, nelle sculture, nelle architetture c’era qualcosa che mi parlava in profondità. All’inizio era un gioco: osservavo, immaginavo storie, cercavo significati nascosti. Poi è diventata passione e infine scelta di vita. Ho capito che non bastava studiare per me stesso, volevo condividere, raccontare. Perché l’arte, se resta chiusa in un libro o in una teca, muore: è nel dialogo con le persone che torna viva.»

Il tuo stile di divulgazione è riconosciuto come accessibile e coinvolgente. Come si arriva a creare un linguaggio così?

«Si arriva osservando molto e parlando poco. La vera chiave è mettersi nei panni di chi ascolta. Io non voglio semplificare, perché la semplificazione rischia di impoverire. Voglio invece rendere accessibile, cioè permettere a chiunque di entrare dentro una storia senza sentirsi escluso. Il rispetto per il pubblico è la mia regola: mai parlare dall’alto, ma sempre “con”. Perché la cultura non è un monologo, è una conversazione.»

“Perfette Sconosciute” è il titolo del tuo spettacolo. Perché hai scelto di raccontare le storie delle artiste dimenticate?

«Perché la storia dell’arte è stata scritta da uomini e per uomini. E questo ha prodotto un grande silenzio intorno a figure femminili straordinarie che hanno creato opere di immenso valore. Dare voce a queste donne è un atto di giustizia culturale. Ma non solo: raccontare le “perfette sconosciute” significa allenare lo sguardo a cogliere le voci che oggi vengono messe ai margini. È una riflessione sul passato, certo, ma anche un invito a leggere il presente con più attenzione.»

C’è un nome, tra queste artiste dimenticate, che ti ha colpito più di tutti?

«È difficile sceglierne uno solo, perché ognuna porta con sé una storia unica. Ma penso a Artemisia Gentileschi, che negli ultimi anni è stata finalmente riscoperta, o a Lavinia Fontana, che riuscì a imporsi in un’epoca in cui era quasi impossibile per una donna avere bottega propria. Ogni vita che porto sul palco è un frammento di resistenza e di talento che merita di essere ascoltato.»

Dal web al teatro: cosa cambia per te quando racconti dal vivo?

«Cambia il respiro. Sul web puoi programmare, tagliare, riascoltare. A teatro sei davanti a persone reali, con cui entri in relazione immediata. Ogni sera è diversa perché ogni pubblico porta con sé un’energia unica. È un incontro irripetibile, che non puoi replicare. Il teatro è fragile e potente allo stesso tempo: ti espone ma ti restituisce emozioni autentiche.»

Il teatro, però, vive dentro la città, con i suoi rumori e i suoi ritmi. Quanto incide questo contesto?

«Incide eccome. Non recitiamo in una bolla isolata: siamo nel cuore pulsante della città. A volte il rumore di fondo arriva in sala, e questo diventa un promemoria che non siamo scollegati dalla realtà. Il cosiddetto “chiasso cittadino” non lo vedo come un disturbo, ma come un richiamo: anche quando parliamo d’arte, siamo sempre immersi nella vita di tutti i giorni.»

Tu sei anche autore di libri di grande successo. Come vivi la scrittura rispetto al palco e ai social?

«La scrittura è un tempo diverso. È più intima, più lenta, quasi meditativa. Sul palco c’è la velocità dell’emozione, sui social c’è l’immediatezza della risposta, nei libri c’è la profondità della riflessione. Scrivere mi permette di scavare più a fondo, di costruire percorsi che richiedono tempo. È un lavoro solitario, ma che poi trova senso nell’incontro con i lettori.»

Che rapporto hai con i musei italiani, spesso accusati di non saper comunicare al pubblico più giovane?

«I nostri musei custodiscono un patrimonio straordinario, ma è vero: spesso manca la capacità di raccontarlo. Non è una questione di risorse soltanto, ma di mentalità. Bisogna imparare a pensare i musei come luoghi vivi, aperti, inclusivi. Quando vedo iniziative che coinvolgono i ragazzi, che sperimentano linguaggi nuovi, penso che sia la strada giusta. Ma serve più coraggio.»

In televisione hai portato l’arte a un pubblico vastissimo. Cosa ti ha insegnato quell’esperienza?

«La televisione ti insegna a parlare a tutti. Non puoi dare nulla per scontato, ma allo stesso tempo non puoi scadere nella banalità. È una palestra straordinaria che ti obbliga a essere chiaro, diretto, empatico. Ma la cosa più bella è stata scoprire che il pubblico aveva fame di cultura. Nonostante i luoghi comuni, la gente ha voglia di ascoltare storie che nutrono, non solo di intrattenimento leggero. Ci sono pochi format e divilgatori culturali oggi in tv. Il mio mito assoluto resta Alberto Angela, fortunatamente le nuovi generazioni utilizzano il web dove stanno nascendo molte realta innovative e interessanti che sopperiscono alla mancanza delle reti generaliste»

Nelle tue riflessioni ritorna spesso il tema della memoria. Perché è così importante oggi?

«Perché senza memoria non siamo niente. Non si tratta solo di ricordare il passato, ma di riconoscere la nostra identità collettiva. Le opere d’arte ci raccontano chi eravamo e ci interrogano su chi vogliamo diventare. Senza radici rischiamo di essere manipolabili, fragili, incapaci di costruire un futuro solido. La memoria è la base su cui poggia ogni speranza.»

Che ruolo può avere l’arte in un’epoca dominata da divisioni e conflitti?

«L’arte non risolve i conflitti, ma può insegnarci a guardarli con occhi diversi. Può educarci alla complessità, alla capacità di sospendere il giudizio. In tempi in cui tutto deve essere ridotto a slogan o a contrapposizioni nette, l’arte ci ricorda che la vita è fatta di sfumature. Questo è un dono prezioso: abituarci a convivere con l’ambiguità e a non temerla.»

Parli spesso di comunità e condivisione. Non rischia di essere un’utopia in tempi così individualisti?

«Forse sì, ma credo che sia l’unica via percorribile. L’individualismo ci logora, ci rende soli e deboli. La vera sfida è imparare a dire meno “altri” e più “noi”. È un cambio di mentalità enorme, che richiede sforzo e coraggio. Non è facile, ma senza questa svolta temo che non ci sia futuro.»

Guardando ai giovani che ti seguono, cosa ti colpisce di più?

«La loro curiosità, che spesso viene sottovalutata. Si dice che i ragazzi non abbiano interesse per la cultura, ma non è vero. Hanno solo bisogno di sentirsi coinvolti e rispettati. Quando capiscono che l’arte non è un mondo distante e polveroso, ma una chiave per leggere il presente, si appassionano con entusiasmo sorprendente.»

E i social, che ruolo hanno nel tuo percorso?

«Un ruolo decisivo. I social possono essere tossici, ma se usati con responsabilità diventano piazze straordinarie. Grazie a loro ho costruito una comunità che dialoga, che partecipa, che si appassiona. Non li vivo come una vetrina, ma come uno spazio di confronto. È lì che ho capito che esiste una domanda reale di cultura, e che vale la pena insistere.»

In tv hai portato un format che racconta le case degli artisti più importanti. Ti è mai capitato di scoprire una realtà diversa rispetto all’immagine che avevi di loro, come nel caso di Leopardi che spesso immaginiamo circondato da atmosfere cupe?

 

«Sì, mi è successo per esempio entrando nella casa di Giovanni Pascoli a Barga. Lo avevo sempre immaginato come un uomo chiuso, malinconico, quasi depresso. Invece ho scoperto un lato tenero e sorprendente: nel salotto c’è ancora una stufa mai accesa perché un giorno, nella canna fumaria, Pascoli trovò un nido di api. Per non ucciderle, decise di non usare mai più quella stufa, costringendo sé stesso e la sorella a vivere al freddo con un piccolo braciere. Ancora oggi, in quella stessa canna fumaria, c’è un alveare vivo. È stato emozionante capire che luoghi che immaginiamo come mausolei di artisti morti sono in realtà spazi ancora pieni di vita».

Nei tuoi interventi televisivi e sui social riesci sempre a semplificare senza banalizzare: qual è il segreto per rendere accessibile un contenuto complesso mantenendo intatta la sua profondità?

«C’è una frase che amo ripetere e che trovo perfetta: la divulgazione non deve saziare, deve affamare. È un pensiero di Beniamino Placido che porto sempre con me. L’obiettivo non è dire tutto, non è chiudere il cerchio, ma al contrario lasciare uno spiraglio, una fame di conoscenza che spinga chi ascolta ad andare oltre le mie parole. Quando preparo un racconto mi immagino di entrare in una stanza buia con una torcia: non posso illuminarla tutta, sarebbe impossibile, ma scelgo alcuni dettagli da mostrare, quelli che possono incuriosire e accendere la voglia di scoprire il resto. È una selezione accurata di temi, un vero e proprio casting: quali elementi possono diventare la chiave d’accesso a un universo molto più vasto?.»

Quali sono gli ingredienti vicenti del tuo metodo?

«Il metodo, se così vogliamo chiamarlo, è trovare quell’equilibrio fragile tra chiarezza e profondità. Semplificare sì, ma senza mai scivolare nella banalità. Raccontare in modo che tutti possano entrare, ma facendo capire che c’è sempre molto di più da scoprire, come una porta socchiusa che invita a varcare la soglia.»

Come ultima domanda, parafrasiamo sempre il titolo del nostro magazine e chiediamo: come vede il “Domani” Jacopo Veneziani quali sono le tue speranze e le tue paure?

«La mia speranza è che prevalga l’opzione: meno “altri” e più “noi”. Spero che la cultura, l’arte e l’educazione diventino strumenti per costruire ponti invece di muri, e che le nuove generazioni abbiano il coraggio di farlo. Ci sono segnali incoraggianti: ragazzi curiosi, comunità che si stringono intorno a progetti culturali, esperienze di condivisione che resistono. Ma ho anche delle paure. Mi spaventa che restiamo prigionieri della logica della divisione, dell’odio, della contrapposizione continua. Mi spaventa che prevalga la voglia di chiudersi anziché di aprirsi. Costringe a finire su una nota pessimista, ma temo che senza questo cambio di mentalità il futuro sarà fatto di più muri che ponti. Speriamo che prevalga la prima, perché se dovesse vincere la seconda, il prezzo da pagare sarebbe altissimo.»

Video Intervista esclusiva a cura di Simone Intermite

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Direttore editoriale del portale Domanipress.it Laureato in lettere, specializzato in filologia moderna con esperienza nel settore del giornalismo radiotelevisivo e web si occupa di eventi culturali e marketing. Iscritto all’albo dei giornalisti dal 2010 lavora nel campo della comunicazione e cura svariate produzioni reportistiche nazionali.