In questo momento critico, in cui le democrazie del mondo sembrano essere in crisi una sfide ed una delle più urgenti è quella della lotta alla disinformazione diffusa e la tutela del giornalismo inteso come pilastro essenziale della democrazia e strumento utile a indirizzare la società civile verso scelte consapevoli ed informate. Le condizioni in cui lavorano i giornalisti in molti paesi tra cui l’Italia sono diventate molto difficili sia a livello contrattuale che giuridico tendendo a deformare il principio assiomatico della verità e dell’imparzialità che dovrebbe reggere il mondo dell’informazione. Per questo essere giornalista più che un mestiere è una missione; di questo si fa oggi portavoce Gad Lerner, una delle firme più autorevoli e discusse del panorama nazionale, maestro del giornalismo d’inchiesta, con una solida esperienza umana e professionale, che recentemente ha restituito una fotografia dello stato dell’arte dell’informazione nel nostro paese con il libro- intervista edito dal Gruppo Abele intitolato “Giornalisti da marciapiede“. Nel racconto della sua storia il giornalista libanese che per primo ha portato in italia la formula del talk show politico, pur prendendone le dovute distanze dalle sue recenti trasformazioni, racconta gli esordi della sua missione giornalistica dagli inizi militanti per la rivista Lotta Continua fino agli approdi importanti per redazioni come La Repubblica e la direzione del Tg1 passando per la conduzione di format televisivi per La 7 e editoriali per Il Fatto Quotidiano determinando come anello di congiunzione la possibilità di cambiare contesto e committenza rivendicando la possibilità restare fedele ai propri ideali e ai propri lettori. Noi di Domanipress abbiamo avuto l’onore di ospitare nel nostro Salotto Digitale Gad Lerner per parlare con lui di giornalismo, verità e tutela della memoria storica del nostro paese tracciando le tappe di una missione chiamata giornalismo.
Partiamo dal titolo del tuo nuovo libro…Cosa vuole dire essere “giornalisti da marciapiede”?
«Il giornalismo per molti del mia generazione è stato vissuto come una militanza, uno strumento necessario per cambiare il mondo, batterci per la giustizia sociale…Oggi guardando indietro ed esaminando il presente non so fino a quanto ci siamo riusciti e cosa ha determinato ma personalmente non ho mai vissuto questa mia vocazione come “mestiere” o come carriera che invece poi è arrivata…Essere giornalisti da marciapiede significa questo, scendere in strada e sporcarsi le mani».
Oggi la professione del giornalista non gode di tutele solide ed è sempre più bistrattato ed asservito a logiche poco edificanti…
«Stiamo assistendo a una forte proletarizzazione della categoria dei giornalisti…Ho usato un gergo antiquato, una terminologia Marxista d’antan per indicare un fenomeno drammaticamente moderno. Il giornalismo è una una professione che ha visto sciogliere i rapporti contrattuali stabili; si è costruito un imperante dilagare di quello che ai miei tempi chiamavamo “l’abusivato”, un tariffario ridicolo rispetto all’impegno costante e le alla competenza richiesta e un avvilimento di una categoria preziosa per la tutela della libertà e della cultura del nostro paese».
Eppure c’è un numero esiguo di giornalisti che gode di privilegi negati alle nuove generazioni…Com’è possibile immaginare un’inversione di rotta?
«Affronto questo tema quasi con imbarazzo, sono un benestante che ha avuto la fortuna di vivere una fase di ascesa sociale in una corporazione che offriva ancora dei privilegi una copertura sanitaria e pensionistica ed una serie di rapporti di lavoro stabili e ben retribuiti. Oggi il fenomeno gira all’incontrario, assistiamo ad una retromarcia e questo probabilmente è dovuto alla qualità e al pluralismo frammentato dell’informazione al tempo della crisi della editoria, in cui la maggior parte delle aziende che producono notizie non presentano dei bilanci attivi e che da troppo tempo sono al collasso».
Uno dei criteri per valutare la libertà di opinione di un paese è proprio quello di analizzare la qualità del suo giornalismo…In Italia la stampa può davvero definirsi libera?
«Diffido da alcuni colleghi che gridano alla censura, in Italia fortunatamente non siamo ai livelli delle grandi dittature. Spesso si assiste al vittimismo di credersi “unici pensatori liberi” capaci di combattere le ingiustizie costruendo una autorappresentazione eroica piuttosto banale e poco aderente alla realtà».
Di ingiustizie nel corso degli anni dalla tua militanza su “Lotta continua” fino ad oggi ne hai rivelate tante, anche lottando contro sistemi solidi; sei mai caduto nella tentazione di definirti un eroe?
«No, personalmente non mi sono mai ritenuto un eroe, anche essendo partito come un militante che ha sempre dichiarato da che parte stava nei rapporti tra padroni ed operai. Come racconto nel libro nel corso della mia vita ho avuto la possibilità di scavalcare la barricata e di lavorare a stretto contatto con aziende editoriali dirette da azionisti di rilievo, esponenti del capitalismo italiano, che avevo combattuto, conservando sempre una forte imparzialità».
Secondo il report di Freedom indext, classifica annuale che valuta lo stato del giornalismo e il suo grado di libertà in 180 paesi del mondo, l’Italia si colloca al cinquantottesimo posto, meglio di noi ci sono realtà dittatoriali ed anche il Sud Africa e la Repubblica Domenicana…
La nostra non è una situazione favorevole ma Oogi ritengo che il problema del pluralismo in Italia non sia legato a censure nei confronti delle voci del dissenso quanto alla proprietà dei mezzi di comunicazione detenuti da gruppi editoriali che in realtà detengono il loro core business in altre attività profittevoli alle quali giova avere un organo di stampa che può influenzare in maniera marcata la magistratura, la politica, i sindacati e l’opinione pubblica definendo un’ egemonia».
A proposito di grandi editori e realtà capitalistiche contro le quali ti batti, nel corso degli anni hai avuto modo di frequentare e conoscere da vicino gli Agnelli, Cesare Romiti, Marchionne e De Benedetti…Si può essere uomini di fiducia dei grandi capitalisti e allo stesso tempo riferimento del popolo senza “snaturare” la propria vocazione al confronto e al dialogo?
Nessuno di noi può compiacersi di esaminare la propria natura mutevole. Non temo di esibire il mio preziosissimo Rolex diffuso in centinaia di milioni di esemplari nel mondo ma che al mio polso desta ancora scalpore. Posso dirti che si, mi sono snaturato se intendi che sono un uomo pieno di contraddizioni ma c’è un dettaglio a cui tengo: queste contraddizioni amo dichiararle e se posso concedermi un pizzico di arroganza posso permettermi di farlo lo faccio perché non ho scheletri nel mio armadio. Durante il mio lavoro ho stabilito amicizie e relazioni con alcuni grandi imprenditori e in certi casi conservo buoni rapporti con gli editori ma non per questo ho rinunciato al mio senso critico».
Cosa hai imparato da questo confronto?
«La mia frequentazione dei “padroni”, nata dal mio lavoro nei loro giornali, l’ho sempre vissuta con grande curiosità. In altri termini non credo di essere diventato un loro ingranaggio, un portavoce che chinava il capo. Ho attraversato il mondo del capitalismo con uno spirito d’inchiesta sociale che ho sempre praticato. Tutti conoscevano il mio universo di provenienza, il mio marchio è sempre stato quello di essere il giornalista che scriveva per “Lotta continua” e questo non è mai venuto meno. L’avvocato Agnelli mi chiese se negli anni settanta andassi in giro con la pistola».
Il giornalista da marciapiede quindi non esiste più?
«Non voglio negare l’evidenza: è ovvio che mi sono imborghesito. Il ragazzo da marciapiede che scriveva per “Lotta continua” per cinque mila lire al giorno, una paga inferiore al meccanico di terzo livello che era il nostro riferimento, è cambiato inevitabilmente quando ho avuto modo di lavorare per la televisione e la direzione dei giornali. Tutto questo però non mi ha mai impedito di guardare alle dinamiche sociali e alle ingiustizie che deve molto a quel giornalista da marciapiede…direi che gli sono debitore».
Gli aspetti umani spesso si intrecciano inevitabilmente con quelli professionali…Com’ era essere un immigrato ebreo che sognava di diventare un giornalista nell’Italia degli anni settanta?
«Sono nato in Libano e devo confessarti che in Italia, al tempo della mia gioventù, essere un ebreo immigrato dal medioriente in fiamme è stato particolarmente difficile. Sono figlio per altro di due immigrazioni diverse, quella dell’Ucraina occidentale da parte di mia nonna e dal mediorente da parte di mio padre che viveva ad Aleppo. Questo percorso che io ritengo provvidenziale; i miei nonni sono gli unici sopravvissuti della mia famiglia allo sterminio nazista,è stato un fardello molto difficile da portare».
Ti sei mai sentito un escluso?
«Ero un outsider, diverso dagli altri, guardavo la realtà da visioni differenti e questo nel giornalismo è un aspetto che mi ha aiutato molto ma non è stato un percorso facile. Ricordo le annunciatrici tv che storpiavano in mille modi il mio cognome ritenuto troppo difficile da pronunciare…ci ho sofferto molto, soprattutto i primi tempi… ».
La fede ebraica, oltre i precetti della Torà, impone anche un modello etico piuttosto rigoroso…”Che la giustizia spacchi la montagna” è la massima di Mosè che può riassumere tutto in poche battute. Quanto ha influito questo aspetto sulle tue scelte umane e professionali?
«A livello intimo se parliamo di fede messianica uno dei concetti fondamentali è quello di continuare a credere che si possa arrivare ad un mondo nuovo, una fine dei tempi che comporti una trasformazione radicale della vita, la scomparsa del dolore e la resurrezione dei morti. Questo ha a che fare con il concetto del Messiah collettivo secondo cui saremo noi i liberatori di noi stessi. Questi sono i cardini morali che hanno contraddistinto la militanza della mia gioventù facendo maturare in me un senso di giustizia sociale che deve guardare ad un orizzonte nuovo. Se ci pensi anche l’ebreo Karl Marx che fondò il movimento del socialismo scientifico era mosso dagli stessi ideali e per questo teorizzava l’estinzione dello Stato inteso come organo borghese perché eccessivamente utopistico. Nel Manifesto la funzione dello Stato dopo la rivoluzione socialista consisteva proprio nell’accelerare lo sviluppo delle forze produttive mediante la centralizzazione della proprietà dei mezzi di produzione. Ho sempre pensato che se si vuole fare una rivoluzione, è necessario sviluppare un modo rivoluzionario ma soprattutto concreto di pensare la realtà».
Nella fede ebraica rispetto a quella cristiana non esiste il dogma, tutto può e deve essere discusso. Questo aspetto si lega con la propensione all’indagine giornalistica?
«Si, posso dirti che spacchiamo il capello in quattro, siamo degli azzeccagarbugli. Ti basti pensare che la bibbia ebraica è formata da cinque libri mentre il Talmud babilonese e quello di Gerusalemme, cioè l’esegesi dei testi sacri per esaminarne cinque impiega oltre quaranta volumi ed è una discussione eterna perché è ancora incompiuta. Per questo ironicamente si dice che se in una stanza ci sono tre ebrei ci saranno anche tre punti di vista diversi. Questa capacità all’analisi e al pormi continuamente delle domande è stata fondamentale anche per il giornalismo.
Dal ebraico all’inglese il tuo nome tradotto significa fortuna…Ti ritieni un uomo fortunato?
Tengo a precisare che in Ebraico il mio nome si riferisce a un significato molto più modesto si tratta di una famiglia derivata da un pastore di capre… forse una realtà a me più vicina. Ma tornando al riferimento inglese si, mi ritengo molto fortunato e per questo mi sento responsabile rispetto al dovere della restituzione al mondo di qualcosa di positivo che si è ricevuto».
L’esibizione ironica del Rolex al poso indica che non sei in conflitto con il tuo successo…
«Ritornando al ebraismo il Talmud recita che non è una colpa essere benestanti e che nello stesso tempo esserlo non è un premio voluto da Dio o unicamente dalle proprie capacità ma un incarico che ti conferisce un dovere maggiore. Devi far fruttare e restituire la tua fortuna al mondo…Quindi perché vergognarsene?».
Uno dei tuoi maggiori successi è stato quello di portare in tv il dibattito tra personaggi politici, in questo sei stato un antesignano.
«Io sono stato uno dei primi a portare il talk show politici in televisione con programmi come “Profondo nord”, “Pinocchio” e “L’infedele” e li ho immaginati come un’estensione televisiva dell’inchiesta sociale. Mi interessava l’idea di rappresentare in un teatro gli interessi, gli scontri e i conflitti individuati in alcuni luoghi. Oggi preferisco non entrare nelle nuove forme del dibattito pubblico in cui si formano le opinioni faziose in cui ci si divide come quando si guarda una squadra di calcio: “Stai con Alessandro Rossini o con Federico Rampini?”».
Dall’approfondimento all’agorà spesso gridata…Come ci siamo arrivati?
«Questo appiattimento costituisce una degenerazione che ha delle ragioni strutturali. Sono le trasmissioni che ad una rete costano meno e producono più utili. Dopo l’avvento di internet e delle piattaforme streaming i grandi networks si sono trovati a fronteggiare una crisi che li ha portati ad un impoverimento dell’offerta e alla necessità di spalmare per ore questo chiacchiericcio economico rispetto alla produzione di una fiction storica o un’inchiesta giornalistica approfondita che implica mezzi adeguati, e soprattutto professionalità costituita da giornalisti formati e con capacità di analisi. Oggi si va avanti così con la chiacchiera da bar… Se si confrontano i palinsesti italiani con altre tv inglese, francese e tedesca è inevitabile leggere uno sbilanciamento verso produzioni low cost. Nel libro tratto questo argomento individuandone le cause e mettendo il luce i professionisti che potrebbero occuparsi di approfondimento, tra tutti la collega Francesca Mannocchi che per tutta la vita ha operato come freelance viaggiando in giro per il mondo in luoghi anche molto rischiosi. Ma cito anche Bernando Valli, Ettore Motti e Tiziano Terzani, si tratta di talenti nati anche grazie all’investimento delle redazioni che facevano viaggiare i giornalisti e li formavano per produrre un inchiesta di qualità. Di tutto questo ora ci restano soltanto i cocci lasciati dai talk show…».
Non credi che questa propensione al dibattito e al dialogo possa far parte della nostra natura italiana? Siamo conosciuti nel mondo anche per questo…
«L’unica tradizione culturale a cui possiamo fare riferimento per i talk show oggi credo che possa essere quella della Commedia dell’Arte dove i personaggi sono ricreati dalle maschere immediatamente riconoscibili per il loro modo di parlare e vestire, sono delle marionette caricaturali che esprimono dei giudizi prevedibili. Guardando questi programmi è facile capire in anticipo quali sono le dinamiche che accadono e questo è rassicurante per lo spettatore che resta su quel canale attendendo il litigio creato a tavolino per alzare i dati auditel».
Anche parte della politica italiana nel corso del tempo si è trasformata in una Commedia dell’Arte in cui alcune maschere sia di sinistra che di destra si sono rivelate per quello che sono causando un cortocircuito nel rapporto di fiducia tra stato e cittadini causando il totale disinteresse dei giovani che preferiscono l’astensionismo. Come siamo arrivati a questo?
«Si è verificato un fenomeno drastico di separazione tra questione sociale e rappresentanza politica. In passato i partiti politici dichiaratamente rappresentavano determinate categorie e in questo senso era naturale schierarsi a favore di uno e dell’altro. Oggi è difficile ritrovare nei partiti questa mission ma non è vero che i giovani sono del tutto disinteressati. Qualche giorno fa ho partecipato con Simonetta Gola ad un evento dedicato ad Emergency anche quella è una forma di militanza perché riunisce molto i giovani che credono in un insieme di valori, in una visione del mondo inclusiva e solidale. Anche l’Anpi associazione partigiana d’Italia, che in alcune città ha più iscritti del partito democratico, può essere militanza, ci sono giovani che scelgono chi vuole rappresentare valori ed ideali separati dalla Realpolitik. Spesso non si tratta di mancanza di sensibilità della nuova generazione ma di inferiorità numerica. Siamo un paese di vecchi, molti dei nostri ragazzi sono espatriati per un futuro migliore e la decrescita demografica ha costituito la parte restante».
In tutto questo anche la memoria storica si sta disgregando, viviamo in un eterno presente e ripetere gli stessi errori del passato non è una possibilità remota. Recentemente hai intrapreso un percorso alla ricerca delle testimonianze partigiane…
«Posso dirti che operare per preservare la memoria è il lavoro più emozionante che sto realizzando in questi anni che deve molto alla mia coautrice Laura Gnocchi. Non si tratta solo di un libro ma di un progetto di raccolta delle voci partigiane italiane intese nel senso più largo possibile: dalle staffette non riconosciute come protagoniste essenziali della resistenza ai ragazzi che al tempo diffondevano la propaganda senza recarsi in montagna. Abbiamo raccolto seicento testimonianze di chi ha raccontato le coraggiose scelte della propria gioventù costituendo su noipartigiani.it un monumento digitale che racconta come un adolescente poteva fare una scelta di vera rivolta. Credo sia un lavoro necessario a costruire una consapevolezza utile al tempo presente perché il razzismo ed il suprematismo fascista si propone in forme sempre nuove e come una pianta infestante viaggia in giro per il mondo e attecchisce soprattutto sull’asfalto dove non c’è l’acqua e il nutrimento della cultura».
Come ultima domanda parafrasiamo sempre il titolo del nostro magazine e chiediamo come vede il “Domani” Gad Lerner quali sono le tue speranze e le tue paure?
«Sarei disonesto se ti facessi un peana ottimistico riferendomi al Domani. La parola che sinceramente vedo all’orizzonte per il futuro è razionamento. Questo concetto interessa il petrolio, il gas, l’energia elettrica e soprattutto le nostre risorse naturali da preservare. Stiamo assistendo a un cambiamento di vita forzato dalle malattie del pianeta e dalla guerra. Da questo cambiamento, che già era stato anticipato dal Covid ,può però crescere anche del buono ma in questa nuova direzione ci arriviamo costretti e anche sofferenti perché da soli, volontariamente, non ci andremmo».
Intervista Esclusiva a cura di Simone Intermite