Per molti è la voce ribelle e spavalda del “Ballo del Mattone”, la ragazzina con i capelli rossi che faceva impazzire il Piper e i salotti di tutta Italia. Per altri è la donna forte, coraggiosa, che ha sfidato l’opinione pubblica per vivere il suo amore “scandaloso” con Teddy Reno. Ma Rita Pavone, classe 1945, è molto di più: è un talento irrequieto, una forza della natura che non si è mai piegata, né alle mode né ai compromessi.
In oltre sei decenni di carriera ha cantato, recitato, fatto TV, girato il mondo, conquistato le classifiche americane, recitato accanto a Totò, duettato con Mina, vissuto mille vite. Ma adesso, sorprende ancora: diventa scrittrice.
Il suo nuovo libro si intitola “Gemma e le altre” (La Nave di Teseo) e ha una genesi particolare. Nasce da un suo disco del 1989, coraggioso, sensibile, troppo in anticipo sui tempi. Un progetto che raccontava le donne, i loro amori, le loro ferite, la loro forza. Un disco “scomparso” per anni, ignorato dai media perché trattava temi “scomodi”, come l’amore omosessuale. Oggi, però, Rita lo riprende e lo trasforma in narrativa. E lo fa con un’urgenza viscerale, con la voglia — mai spenta — di dire la verità attraverso l’arte.
Abbiamo ospitato Rita Pavone nel Salotto di Domanipress per una lunga, intensa, emozionante confessione. Parla di tutto: dell’infanzia, delle notti passate a scrivere frasi sul telefono, dell’occasione americana sfumata per colpa dei genitori, dell’amore con Teddy Reno, della musica che oggi “usa l’autotune per coprire la mancanza di talento”. Ma soprattutto, parla della resilienza di chi ha imparato a non arrendersi mai.
Rita, partiamo dal tuo nuovo libro. Gemma e le altre non è solo narrativa. È qualcosa di molto più profondo, vero?
«Sì. Questo libro nasce da un disco che ho inciso nel 1989, che si chiamava appunto Gemma e le altre. Era un concept album sull’universo femminile, sui suoi dolori, le sue sfumature, i suoi amori — anche quelli diversi, in tempi in cui certe cose erano ancora taciute, ignorate o censurate.
La critica lo aveva accolto benissimo, anche perché musicalmente era molto forte. Ma non passava in radio, né in televisione. Nessuno voleva rischiare di “infastidire” il pubblico. Così, è stato dimenticato. Solo i miei fan più fedeli continuavano a chiedermelo.»
E cosa ti ha spinto a riscoprirlo oggi?
«È cominciato tutto quasi per caso. A un certo punto ho detto: “Sai che c’è? Proviamo a inserirlo nei live.” E la gente lo ha amato. Una sera Elisabetta Sgarbi, l’editrice de La Nave di Teseo, mi ha detto: “Ma questi testi sono bellissimi. Perché non li trasformi in racconti?”
Io ho risposto: “Non lo so se ne sono capace.” Ma poi ho pensato: mi piacciono le sfide. Mi piace alzare l’asticella. E così ho cominciato a scrivere. Di notte. Con frasi che mi arrivavano come ispirazioni improvvise. Mi svegliavo, prendevo il telefono, e registravo. È stata un’esperienza pazzesca. Quasi mistica.»
Hai detto che scrivere ti ha dato emozioni nuove. Ma tu sei sempre stata vicina alla parola scritta?
«Assolutamente sì. Non ho avuto un’istruzione regolare. Ho lasciato la scuola dopo la quinta elementare. Ma poi ho cominciato a studiare da sola. Ho letto centinaia di libri. Di tutto.Mio padre, che era un operaio Fiat, aveva un’ossessione per la Settimana Enigmistica. Ogni sabato comprava una copia, si sedeva al tavolo e mi diceva: “Devi imparare cose che non sai. Le parole sono importanti.”
Se non capivo una definizione, me la faceva segnare. La settimana dopo trovavamo la risposta. Era il suo modo per insegnarmi. E gli sarò grata per sempre
E quindi scrivere, oggi, è un po’ come un ritorno alle origini?
«Sì. È come se tutte le parole che ho accumulato negli anni cercassero adesso di uscire. Ho sempre scritto testi, anche musicali. Ma qui era diverso. Dovevo immaginare mondi. Dovevo creare persone che non ero io, ma che parlavano con la mia voce. Ed è stato bellissimo.
Hai iniziato a nove anni, al Teatro Alfieri di Torino. Una carriera lunghissima. Ma chi ha scelto chi? Tu la musica, o la musica te?
«Penso che ci siamo scelte a vicenda. Avevo nove anni e partecipavo a uno spettacolo con una compagnia di ragazzini. Avevo due ruoli: nel primo tempo ero una “negretta” che cantava pezzi americani (era tutto molto diverso allora), nel secondo tempo una ragazzina americana.
Fu il mio primo vero debutto davanti a un pubblico vero. Ero talmente agitata che mi venne la febbre per una settimana. Ma lì ho capito che il palco era casa mia.»
Hai parlato spesso delle due “Rita”: quella pubblica e quella privata…
«Sì. C’è Rita, che è timida, riservata, si imbarazza se la guardano al ristorante. E poi c’è la Pavone, quella che sale sul palco e diventa un’altra. Sono due entità diverse, ma convivono benissimo. Ognuna lascia spazio all’altra. Senza conflitti.»
Hai avuto successo anche in America. E non è da tutti. Ma a un certo punto hai dovuto rinunciare…
«Erano gli anni Sessanta. Ed Sullivan, il grande presentatore, si era innamorato di Topo Gigio e poi, vedendomi in TV, anche di me. Disse alla RCA americana: “Voglio la ragazzina nel mio show.”
Firmammo un contratto per 4 LP. Feci il Sullivan Show, il Copacabana, entrai nelle classifiche USA. Vidi Funny Girl a teatro con Barbra Streisand, Sammy Davis Jr. che cantava, ballava, imitava. Era il mio sogno.»
E poi?
Poi arrivò la realtà. In Italia la maggiore età era 21 anni. Mia madre era con me, ma doveva tornare per accudire mio fratello piccolo. Mio padre non volle che restassi lì con una governante. Disse: “No, la bambina torna.” E io tornai.
Mi sono giocata l’America. Forse non avrei combinato niente. O forse sì. Non lo saprò mai. Ma so che avrei voluto provarci.»
Con Teddy Reno è stato un amore travolgente ma difficile. Molti vi hanno giudicati…
«Lui era sposato per procura in Messico. Un matrimonio fatto per “precauzione”, diciamo. Quando è nata la nostra storia, scoppiò uno scandalo. Ci sposammo in Svizzera, con l’aiuto di monsignor Cortella.
Eravamo 19 anni di differenza. Ma io non li ho mai sentiti. Lui era — ed è ancora — bellissimo. A luglio compirà 99 anni. È un po’ confuso, ma sempre affascinante. E tra pochi giorni festeggeremo 57 anni di matrimonio.»
Quando è scoccata la scintilla?
«Ci siamo accorti di amarci su un’isola, durante uno scalo aereo. Ci siamo abbracciati, ci siamo detti: “Sarà per sempre.” E così è stato.»
Nel 2020 sei tornata a Sanremo con Resilienza 74, un brano rock. Hai un’anima moderna, nonostante tutto…
«Io sono sempre stata così: due anime. Una dolce, una rock. E credo che un artista vero debba saper fare tutto. I miei concerti si chiamano “Con un piede nel passato e lo sguardo dritto e aperto nel futuro”. È una frase di Bertoli. E dice tutto.»
Cosa pensi della musica di oggi?
«C’è molto di buono, ma anche molta approssimazione. L’autotune lo detesto. Oggi non si cerca più la voce vera. Si cerca l’effetto. Ma la voce è verità. È imperfezione. Io ho visto concerti di Aretha Franklin, Tina Turner, Adele. Vedere quella fatica, quella forza… è ciò che fa la differenza. Una volta Justin Bieber si sentì male sul palco e vomitò, ma la voce andava avanti. Era tutto playback. E io penso: questo è truffare il pubblico.»
Come ultima domanda, parafrasiamo sempre il titolo del nostro magazine e chiediamo: come vede il “Domani” Rita Pavone, quali sono le sue speranze e le sue paure?
«Cerco di guardare al Domani con speranza. Mi alzo ogni mattina e amo quello che faccio. È un privilegio. Fra sette mesi compio 80 anni, ma finché non passo davanti a uno specchio, non me li sento.L’altro giorno, un bambino di 11 anni mi ha detto: “Sono innamorato delle tue canzoni.” E io ho pensato: ecco il futuro. Finché c’è chi ascolta, chi sogna, chi legge, chi canta… c’è sempre Domani.»
Intervista esclusiva a cura di Simone Intermite
Intervista esclusiva a cura di Simone Intermite