«Non è il clima a essere impazzito, siamo noi a non volerlo ascoltare.» Luca Mercalli ha sempre avuto il dono – e la dannazione – di dire le cose come stanno. Senza retorica, senza filtri, ma con quella compostezza severa che appartiene a chi non fa allarmismo, ma scienza. Il suo volto, incorniciato da una barba d’altri tempi, è diventato familiare in televisione, tra grafici e temperature che salgono, ma è nel privato che si rivela più incisivo: quando parla di ghiacciai come fossero amici scomparsi, quando cammina tra le Alpi con l’aria di chi le conosce una per una, o quando ti guarda negli occhi e ti dice che sì, il futuro si può cambiare, ma serve coraggio.

Climatologo, divulgatore, presidente della Società Meteorologica Italiana, Mercalli ha dedicato la vita a far dialogare scienza e coscienza. Lo fa con il piglio del professore e l’anima dell’alpinista: ama le parole precise come i numeri, ma ha anche il cuore di chi ha visto la neve cadere sempre meno. È un testimone del cambiamento, uno di quelli che non ha mai smesso di prendere appunti, e oggi quelle note diventano una bussola per chi vuole capire da dove veniamo e, soprattutto, dove stiamo andando.

Nel suo ultimo libro, Breve storia del clima in Italia (Einaudi), Mercalli ci accompagna in un viaggio che inizia nel Neolitico e arriva fino alla crisi climatica contemporanea. Un racconto rigoroso ma accessibile, fatto di dati, mappe, ricostruzioni storiche e aneddoti sorprendenti. Perché il clima, spiega Mercalli, non è solo una questione di gradi centigradi, ma di memoria collettiva. Di agricoltura, di migrazioni, di guerre e rinascite. Una cronaca appassionata – e per certi versi struggente – che restituisce dignità al tempo atmosferico e ci invita, finalmente, a guardare in alto. E dentro. Noi di Domanipress l’abbiamo incontrato nel nostro Salotto Digitale.

«Oggi viviamo in un’epoca di odio feroce. Per questo mi emoziona sentire ancora un po’ di affetto», dice sorridendo Luca Mercalli mentre entra nel nostro salotto virtuale. Climatologo, divulgatore, intellettuale civile. Ma anche, e forse soprattutto, una voce che ci invita a guardare il cielo per capire la terra. Il suo nuovo libro, Breve storia del clima in Italia (Einaudi), è una sintesi appassionata di quarant’anni di ricerche. Un viaggio che parte dall’ultima glaciazione e arriva al cuore pulsante delle sfide che ci aspettano.

Il tuo libro arriva come un grido gentile ma potente, un invito a guardare la storia del nostro clima per capire il presente. Come nasce questo lavoro?

«È il risultato di quarant’anni di ricerche, appunti, sopralluoghi, pagine raccolte, osservazioni meteorologiche e passione. Finalmente ho trovato il tempo e il coraggio per metterle in ordine. Sono stati due anni di lavoro intenso, metodico, spesso anche solitario. Ma oggi posso dire che Breve storia del clima in Italia è il libro che mancava: una narrazione completa e scientifica della nostra storia climatica nazionale, dai 24.000 anni fa dell’ultima glaciazione fino ad oggi.»

Che ruolo ha avuto la tecnologia nella costruzione di questo libro?

«Un ruolo determinante. Trenta anni fa avrei dovuto girare il mondo per consultare certi manoscritti, sperando di trovarli in qualche biblioteca polverosa. Oggi, grazie ai PDF digitalizzati dalle università di tutto il mondo, posso scaricare un documento scritto cinquecento anni fa e cercare dentro di esso parole chiave in pochi secondi. Questo ha trasformato la ricerca storica in qualcosa di molto più accessibile e ha reso possibile ciò che prima era semplicemente impensabile.»

Hai raccontato ventiquattromila anni di clima italiano. Se potessi davvero salire su una macchina del tempo, c’è un’epoca che avresti voluto vivere?

«In realtà ce ne sono due. Da scienziato, senza dubbio, sceglierei l’ultima glaciazione. Un periodo durissimo, affascinante dal punto di vista climatico: i ghiacciai arrivavano fino alle porte di Torino e Milano, il livello del mare era più basso di 125 metri, l’Adriatico cominciava quasi dopo Ancona… uno scenario radicalmente diverso, quasi alieno rispetto a quello attuale. Mi piacerebbe studiarlo dal vivo, osservarne i dettagli, viverlo sulla pelle.»

E se invece seguiamo il cuore più che la scienza?

«Allora direi il periodo romano, tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., oppure l’anno Mille. Sono state le poche epoche di clima stabile e mite della nostra storia. Il resto del tempo è stato segnato da gelo, carestie, siccità, instabilità. C’è anche un’altra piccola parentesi serena, che io chiamo la Belle Époque climatica: la prima metà dell’Ottocento. Periodi brevi, ma che ci insegnano quanto il clima influenzi tutto, dalla cultura al benessere.»

Proprio su questo punto: ogni epoca ha il suo clima, ma ogni clima plasma la società. Come descriveresti il clima di oggi con una metafora?

«Viviamo una nuova patologia climatica. Le crisi climatiche del passato erano naturali: venivano da eruzioni vulcaniche, oscillazioni solari, variazioni orbitali. Oggi invece siamo noi la causa della malattia. Con l’uso eccessivo di combustibili fossili, abbiamo alterato l’atmosfera come non era mai accaduto negli ultimi tre milioni di anni. Stiamo navigando in un oceano nuovo, senza mappe. E il tempo per correggere la rotta si sta esaurendo.»

Il tuo è un racconto rigoroso ma anche empatico. C’è una dimensione civile, quasi spirituale, nella tua scelta di divulgare. Ti riconosci in questo?

«Sì, molto. Ho sempre sentito che raccontare la verità scientifica fosse un dovere morale. E non posso chiedere agli altri di cambiare, se io per primo non sono coerente. Vivo da oltre venticinque anni in modo sostenibile: casa isolata, pannelli solari, auto elettrica, dieta sobria, orto, niente aerei. Non è fuga dalla città, è scelta consapevole. E soprattutto è credibilità: non puoi spiegare come funziona una pompa di calore se non ce l’hai provata.»

Hai scelto di vivere in montagna. È un gesto simbolico o anche pratico?

«È entrambe le cose. È coerenza, ma anche adattamento. Mi sono trasferito a 1650 metri di altitudine, in una vecchia baita che ho ristrutturato seguendo i principi della sostenibilità. L’ho raccontato anche in un altro libro, Salire in montagna. So che non tutti potranno farlo, ma la montagna oggi è una risorsa sottovalutata. Ci sono interi borghi abbandonati che potrebbero diventare rifugi per migliaia di persone. È una migrazione preventiva. Un modo per ripensare il nostro modo di abitare il futuro.»

A proposito di futuro: oggi la crisi climatica è anche un tema politico, sociale, culturale. Ma chi è più difficile da convincere, un negazionista climatico o un politico?

«Entrambi. Il negazionista parte da un pregiudizio ideologico e non c’è modo di fargli cambiare idea. Tempo sprecato. Il politico, invece, è schiavo del consenso. Se la società non è informata e non chiede risposte sul clima, allora il politico preferisce non esporsi. Anche se magari, in privato, è convinto. Ma il risultato è lo stesso: immobilismo. E il tempo, intanto, scorre. Abbiamo una finestra temporale strettissima per agire. E ogni giorno perso è un danno che si accumula.»

Nonostante tutto, non ti arrendi. E i giovani sembrano seguirti con attenzione. Cosa vedi nei loro occhi?

«Vedo speranza. Vedo intelligenza, sete di sapere, voglia di agire. Alle mie conferenze, spesso le sale sono piene di studenti. Alcuni mi scrivono per raccontarmi che hanno cambiato strada grazie a un mio libro, o a un incontro. Vogliono fare la tesi sul clima, diventare insegnanti, agronomi, architetti consapevoli. Questo dà senso a tutto. È la prova che non siamo soli.»

Ti capita mai di sentirti stanco, scoraggiato?

«Sì. È umano. A volte ti sembra di parlare al vento, di combattere contro giganti, mentre tutto intorno si alza il rumore delle armi, delle fake news, dell’indifferenza. Ma poi salgo su un palco, incrocio lo sguardo di una ragazza delle superiori che mi fa una domanda vera, urgente, e tutto torna. Ogni voce conta. Anche la mia.»

Hai detto che questo libro l’hai scritto con l’intelligenza naturale. Ma l’intelligenza artificiale può aiutare la scienza climatica?

«Sì, se viene usata bene. Un giorno forse libri come questo li scriveranno anche le IA. Potranno cercare dati nei meandri più remoti degli archivi digitali, confrontarli, elaborarli. Ma poi serve ancora il nostro sguardo critico. L’intelligenza umana è insostituibile. L’importante è non deviare questi strumenti per fini maldestri. La conoscenza resta la nostra arma migliore.»

Se dovessi lasciare un consiglio, una frase da mettere in tasca a chi oggi ha vent’anni e si chiede che mondo avrà a quarant’anni, cosa gli diresti?

«Direi: “Il futuro non è un destino scritto, ma un progetto collettivo. Nessuno può farcela da solo, ma insieme possiamo ancora cambiare rotta.” E aggiungerei: “Non rassegnarti. Informati, partecipa, scegli con cura ogni gesto: ogni voto, ogni acquisto, ogni parola. Perché il domani si costruisce oggi, nei dettagli invisibili di ogni giorno.”»

Come ultima domanda, parafrasiamo sempre il titolo del nostro magazine. Come vede il Domani Luca Mercalli? Quali sono le sue speranze, le sue paure?

«Il Domani lo vedo con nubi fosche all’orizzonte. Ma fortunatamente abbiamo le previsioni. E possiamo ancora evitare la tempesta. Il mio augurio è che prevalga la cultura sulla paura, l’educazione sull’ignoranza. La bellezza della conoscenza può ancora salvarci. Ma solo se la meritiamo.»

Intervista esclusiva a cura di Simone Intermite

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Direttore editoriale del portale Domanipress.it Laureato in lettere, specializzato in filologia moderna con esperienza nel settore del giornalismo radiotelevisivo e web si occupa di eventi culturali e marketing. Iscritto all’albo dei giornalisti dal 2010 lavora nel campo della comunicazione e cura svariate produzioni reportistiche nazionali.