«La musica non è mai solo suono, è un viaggio che attraversa il silenzio e lo trasforma in emozione»

Così ci accoglie Angelo Branduardi: non soltanto un maestro cantautore, ma un narratore di mondi, un menestrello contemporaneo, un trovatore capace di unire le radici della tradizione rinascimentale con le inquietudini del presente. La sua figura, con il violino stretto al petto, sembra uscita da un’altra epoca eppure parla a noi, oggi, con una forza intatta. Ogni nota diventa un gesto rituale, ogni parola un frammento di leggenda che si fa canto. Con il suo violino, Branduardi ha attraversato generazioni e continenti, mantenendo intatta la capacità rara di trasformare il palcoscenico in un luogo sospeso, dove il tempo si piega e la musica diventa rito collettivo. I suoi concerti sono pellegrinaggi sonori, in cui il pubblico diventa parte integrante della narrazione, viandanti chiamati a condividere un viaggio che unisce memoria e visione.

Oggi, a distanza di decenni dal suo debutto, Branduardi continua a sorprendere con la stessa grazia che lo ha reso un unicum nella scena musicale italiana. Dopo il recente singolo “Kyrie”, che intreccia atmosfere sacre e popolari, e il nuovo “Il Cantico Tour 2025”, che lo porterà nei teatri più prestigiosi d’Europa, l’artista conferma che la sua musica non appartiene a un’epoca, ma a tutte. Le sue melodie, sospese tra il passato e l’avanguardia, dimostrano che l’arte può ancora parlare con la stessa intensità a chi sa ascoltare. Dietro il mito, c’è anche l’uomo. Un artista che ha conosciuto il successo planetario di Alla fiera dell’Est e ha avuto il coraggio di abbandonare la via del mainstream per seguire il richiamo interiore della ricerca, firmando lavori come L’infinitamente piccolo, dedicato a San Francesco, o la serie di progetti Futuro Antico, in cui la musica del Rinascimento e del Medioevo si intrecciano con linguaggi contemporanei.

In questa video intervista esclusiva nel Salotto di Domanipress, il maestro Branduardi ci apre le porte del suo universo poetico, tra ricordi e nuove sfide, raccontandoci come il filo sottile che lega passato e futuro continui a guidare la sua arte. Non è solo musica: è un cammino spirituale, un pellegrinaggio in cui ogni nota diventa domanda e ogni concerto una risposta possibile al mistero della vita.

Angelo, partiamo dal tuo percorso. La tua esplosione più grande è arrivata con “Alla fiera dell’Est”, un brano che inizialmente suscitò dubbi persino in RCA, ma che poi è diventato un successo mondiale. Che ricordo hai di quel periodo?

«È vero, all’inizio non tutti ci credevano. Eppure Alla fiera dell’Est si è trasformata in un successo internazionale. La cosa curiosa è che, dopo Parigi, quando ho deciso di seguire una strada non parallela al mainstream, ho piazzato altri successi importanti. Pensiamo al disco su San Francesco, L’infinitamente piccolo, che nessuno voleva stampare e che invece è diventato un fenomeno mondiale. Ho fatto più di trecento concerti e volevano farmi continuare per un altro anno… Io risposi: “O mi fate santo subito, oppure chiudiamola qui!”».

Cosa ha significato per te quel riconoscimento improvviso e globale?

«Un misto di stupore e responsabilità. Ti ritrovi a essere tradotto in dieci lingue, a girare il mondo, e capisci che la tua musica non ti appartiene più. Diventa di chi l’ascolta».

Dopo una lunga fase da vera rockstar, con concerti davanti a decine di migliaia di persone, hai scelto di cambiare direzione. Com’è avvenuta questa svolta?

«Per più di vent’anni mi sono divertito tantissimo: 20.000, 30.000 persone a concerto. Poi a Parigi, all’aeroporto di Le Bourget, c’erano 140.000 spettatori. Lì ho capito che la mia vita rock era finita. Sono tornato alle origini, alla musica classica, quella del conservatorio. Non è stato immediato, ma alla fine il pubblico ha capito. Oggi continuo a cercare, inventare, riarrangiare. È questo che mi tiene vivo».

È stata una scelta di cuore o di sopravvivenza artistica?

«Forse entrambe. Ho seguito un’urgenza interiore, e allo stesso tempo ho avuto bisogno di non tradire la mia natura più autentica».

In questo momento sei impegnato con la musica alla Corte degli Estensi e con il “Cantico” dedicato a San Francesco. Come nascono queste ricerche particolari?

«Sono il frutto della mia curiosità e della voglia di esplorare. La musica antica è sempre stata dentro di me, è il mio terreno naturale. Eppure non è mai solo nostalgia: mi piace reinventarla, portarla a dialogare con il presente. In fondo ci sono solo io che faccio quel tipo di musica, ed è una sfida continua».

È un modo anche per riscoprire le radici?

«Sì, ma non in maniera museale. Le radici vanno nutrite e fatte respirare nel presente».

Se dovessi trovare un filo conduttore tra la tua produzione passata e quella attuale, quale sarebbe?

«Rispondo con le parole di Ennio Morricone, con cui ho avuto la fortuna di dividere l’amicizia e due tour europei: “Essendo la musica l’arte più astratta, è la più vicina all’assoluto”. Credo sia proprio così: la musica non si tocca, passa e non torna più. È l’arte più vicina a ciò che non possiamo spiegare».

“Alla fiera dell’Est” è ancora oggi un brano iconico, cantato persino ai bambini nelle scuole. Eppure tu lo hai definito una canzone “violenta”.

«Sì, perché in realtà racconta una catena di morte. Si parte dal topolino, ma poi arriva l’angelo della morte, il macellaio, ed è un susseguirsi di assassini. È quasi un’apocalisse in miniatura. Eppure è diventata una ninna nanna. È il potere della musica: trasformare le cose, dare loro un altro senso».

Un altro brano simbolo della tua carriera è “Si può fare”. Oggi, secondo te, cosa non si può più soltanto fare, ma si dovrebbe fare?

«Se lo sapessi, lo direi. Purtroppo credo stiamo vivendo il periodo peggiore dalla fine della Seconda guerra mondiale. È un tempo incattivito, segnato da violenza e divisioni. Non vedo soluzioni semplici, ma spero non sia troppo tardi».

La musica può ancora indicare una via?

«La musica può lenire, può accompagnare. Non può salvare il mondo, ma può salvare qualcuno. E questo non è poco».

La tua musica ha sempre avuto un lato onirico, sognante, e allo stesso tempo capace di denuncia. Oggi invece il rap spesso restituisce fotografie crude della realtà. Come vivi questo cambiamento di linguaggio?

«Quando sento testi misogini e omofobi, mi si rivolta lo stomaco. Detto questo, vedo anche nuove generazioni di cantautori che riportano in vita lo spirito del nostro tempo. Questo mi dà speranza».

Parlando di nuove generazioni: al Festival di Sanremo e non solo si sta riscoprendo il valore del cantautorato. Che consiglio daresti ai giovani che, come te in passato, scelgono strade diverse dal mainstream?

«Ci vuole coraggio, perseveranza e, come diceva Morricone, studio, studio, studio. E poi la testa dura. Io ho fatto tre anni di gavetta caricando strumenti in una 500 e guadagnando 20.000 lire a sera, quando me le davano. Oggi conta solo il numero di visualizzazioni. Non c’è più il talent scout che ti guidava, ti sosteneva, ti aiutava a crescere. È cambiato tutto».

Un ricordo speciale della tua carriera è legato al produttore David Zard, che credette in te arrivando persino a finanziare i tuoi progetti grazie agli incassi di Gloria Gaynor. Che esperienza fu?

«È stata un’intuizione geniale. Io non ero conosciuto, lo studio chiedeva di essere pagato ogni giorno, e Zard utilizzava gli incassi di Gloria Gaynor per coprire le spese. Una forma di economia circolare musicale, potremmo dire. Grazie a lui sono esploso e ho girato il mondo. Venticinque anni da rockstar, ma con il violino al posto della chitarra elettrica».

Il violino, spesso chiamato “lo strumento del diavolo”. Perché secondo te ha questa aura misteriosa?

«Perché la memoria muscolare ti porta a suonare come se non fossi tu, come se fosse qualcos’altro a guidarti. C’è una parte serena e una inquietante nella musica. Il violino le tiene insieme».

Molti dei tuoi testi portano la firma di tua moglie, che è stata anche la tua musa. Quanto ha influito questo sodalizio nella tua carriera?

«È nato per caso. Ho letto dei testi che aveva scritto e mi sono piaciuti moltissimo. Abbiamo provato, ed è stato naturale. Da lì in poi quasi tutte le mie canzoni portano la sua firma. È stato ed è un incontro decisivo, anche nella mia crescita artistica».

Nella tua carriera hai sempre intrecciato musica e parole. Qual è stato il ruolo della letteratura e della poesia nel tuo lavoro?

«Fondamentale. Ho avuto un rapporto stretto con grandi poeti come Franco Fortini, che ha influito molto sul mio immaginario. E poi la lettura, che per me è sempre stata un nutrimento quotidiano. La musica senza parola non è completa, e la parola senza musica perde corpo. Io cerco da sempre di farle dialogare».

Dopo oltre cinquant’anni di carriera, cosa non abbiamo ancora scoperto di Angelo Branduardi?

«Forse neppure io lo so. So solo che continuerò a suonare finché avrò respiro. Schiatterò sul palco, perché se mi fermassi, cadrei nella depressione».

Come ultima domanda, parafrasiamo sempre il titolo del nostro magazine e chiediamo: come vede il “Domani” Angelo Branduardi quali sono le tue speranze e le tue paure?

«La speranza è che nel Domani ci sia un futuro. La paura è il dialogo con la fine. Ho una forte spiritualità, ma la mia fede non è un’autostrada: è un sentiero tortuoso, dove cado, mi rialzo, torno indietro e riprovo. Non sono ancora arrivato alla parola “Sì” e alla mia pace interiore. Ma continuo a cercare».

Video Intervista esclusiva a cura di Simone Intermite

 

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Direttore editoriale del portale Domanipress.it Laureato in lettere, specializzato in filologia moderna con esperienza nel settore del giornalismo radiotelevisivo e web si occupa di eventi culturali e marketing. Iscritto all’albo dei giornalisti dal 2010 lavora nel campo della comunicazione e cura svariate produzioni reportistiche nazionali.