Pochi giorni prima dell’arresto, che ha acceso i riflettori internazionali sulle implicazioni del suo lavoro e sull’importanza della libertà di stampa, abbiamo incontrato Cecilia Sala giornalista e autrice del libro “L’Incendio”, edito da Mondadori e dal podcast di Chiora Media “Storie” che si è raccontata senza filtri nel Salotto di Domanipress.
Con il suo stile diretto e una passione contagiosa per il racconto della verità, Cecilia ha condiviso con noi le sfide di documentare i conflitti e l’urgenza di tenere viva l’attenzione sulle tragedie umane. “Non si può raccontare la guerra come un elenco di numeri o eventi: bisogna dare un volto a chi vive ogni giorno nell’ombra del conflitto,” ci ha confidato. Reporter e narratrice di storie dal fronte di guerra, la giornalista di Chora media è diventata una figura di riferimento nel panorama del giornalismo italiano e internazionale. Classe 1995, il suo percorso è segnato dalla capacità di entrare nei luoghi più pericolosi e restituirne un racconto autentico, che intreccia cronaca e sensibilità umana. Dopo anni trascorsi come inviata nelle aree di crisi, dall’Afghanistan all’Ucraina, ha pubblicato il suo libro L’Incendio (Mondadori), una riflessione incisiva sulle dinamiche invisibili della guerra e sulle sue devastanti conseguenze sui civili.
Parallelamente, Cecilia è la voce e l’anima del podcast Stories, che ha conquistato il pubblico per la capacità di trasformare i temi complessi in narrazioni coinvolgenti e accessibili. Attraverso le sue parole, le notizie non sono mai fredde cronache, ma finestre aperte su vite, culture e drammi che meritano di essere compresi e ricordati.
Alla vigilia del rilascio mentre si festeggia la sua liberazione, il nuovo apputamento del Salotto di Domanipress la vede protagonista. Abbiamo approfondito il ruolo del giornalismo nel documentare i conflitti, l’importanza di una prospettiva femminile e la necessità di dare voce ai dimenticati.
“Non basta raccontare il numero delle vittime o le città distrutte. Bisogna immergersi nelle vite di chi sopravvive e resiste, mostrando quanto anche la nostra attenzione possa fare la differenza,” ha spiegato Cecilia, con la passione che da sempre contraddistingue il suo lavoro.
Durante il nostro incontro, Cecilia Sala ha ribadito come il giornalismo possa essere uno strumento di cambiamento, se capace di scuotere coscienze e abbattere l’indifferenza.
Un dialogo intenso, che ci ha portato dentro il lato più umano della guerra, facendoci riflettere sull’importanza della comprensione e della memoria, perchè raccontare è resistere ed è anche il modo migliore per costruire un domani che non bruci sotto le fiamme dell’indifferenza.
Sei una delle prime inviate e podcaster italiane che raccontano i territori di guerra con una prospettiva profondamente umana. Come riesci a trovare lati di straordinaria umanità in contesti così difficili?
«I contesti di crisi, in particolare quelli di guerra, sono pieni di storie umane straordinarie. È un aspetto che mi ha sempre colpito: il potenziale umano, anche nei momenti più drammatici, emerge con una forza straordinaria. Quando abbiamo iniziato il podcast Stories, circa tre anni fa, Mario Calabresi – il mio direttore a Chora Media – mi propose l’idea di raccontare non solo i fatti, ma le persone. Non si trattava semplicemente di elencare numeri, missili lanciati o palazzi distrutti, ma di entrare nelle vite delle persone che subiscono o agiscono nei conflitti. Questo approccio ci restituisce un’immagine più reale di cosa significhi vivere in guerra, sotto occupazione, o in un paese in crisi.»
Le storie che racconti sono delle fotografie autentiche e nitide…spaccati di vita vissuta che non travano spazio nelle fredde cronache dei telegiornali.
«Le storie umane sono sempre le più autentiche, che siano di personaggi noti o di persone comuni, sconosciute persino nei loro paesi. È attraverso i loro racconti che si comprende davvero cosa significhi vivere in situazioni estreme, come nell’Afghanistan post-ritiro occidentale, l’Iran durante le proteste del 2022, o l’Ucraina invasa.»
Nel tuo ultimo libro, “L’Incendio”, esplori le storie di ventenni nei territori in guerra. Qual è il filo rosso che lega queste esperienze così diverse?
«Direi che il filo conduttore è la resilienza. In Afghanistan, per esempio, il ritorno dei talebani nel 2021 è stato vissuto come un trauma soprattutto dai più giovani, che non avevano mai conosciuto quel regime. Per loro, era come un’invasione aliena: immagina ragazze abituate ad andare al liceo, che all’improvviso vedono il mondo che conoscono dissolversi. In Iran, invece, le proteste del 2022, iniziate dopo la morte di Mahsa Amini, sono state guidate da giovani ventenni. Ho intervistato molti di loro, come Fosa e Assim, che furono tra i primi a scrivere gli slogan della rivoluzione. La loro determinazione è stata impressionante.»
Spostandoci verso est, c’è la questione Ucraina…
«In Ucraina, racconto storie come quella di Roman Ratniy e di una generazione post-sovietica che si è trovata a dover difendere l’indipendenza conquistata dai loro genitori. C’è anche Caterina, una giovane modella che, nonostante avesse la possibilità di fuggire, ha scelto di restare per combattere. Questi giovani dimostrano una capacità incredibile di reagire, anche di fronte a circostanze apparentemente. insormontabili.»
Come ci si prepara ad affrontare queste realtà, sia a livello pratico che umano?
«Prepararsi per una trasferta in zone di crisi significa, da un lato, organizzarsi materialmente, ma dall’altro prepararsi emotivamente. La parte pratica comprende equipaggiamento, piani di sicurezza e conoscenze linguistiche o culturali. La parte umana, invece, è più complessa. Si tratta di costruire in tempi rapidissimi un rapporto di fiducia con persone sconosciute, che spesso vivono in condizioni di estrema pressione o paranoia. È qualcosa che non si può insegnare facilmente in una scuola di giornalismo. A volte basta un gesto, un sorriso o condividere un dettaglio personale per creare una connessione.»
Cosa nasce umanamente da questi incontri, oltre il racconto giornalistico del podcast?
«Quando il rapporto si costruisce, le conversazioni diventano intensissime, molto più di quelle che potresti avere in una cena tranquilla a casa. È qui che emergono i racconti più autentici. Spesso si instaurano amicizie. Si parla di dolore ma si arriva anche a intercettare i punti in comune, il lato più positivo della vita. In questo è importante riscoprire il valore della condivisione e dell’empatia.»
Dopo tutti questi viaggi e incontri, cosa porti con te al rientro a casa? Come ti influenza a livello personale ed emotivo?
«Questa è una domanda che mi faccio spesso. Più che l’esposizione diretta alle scene drammatiche sul campo, trovo che a lasciare il segno siano le immagini che vedo su Telegram o altri canali di informazione, quando analizzo dinamiche di attacchi o crimini di guerra. Quelle immagini, spersonalizzate, possono creare una sorta di anestesia emotiva. Me lo chiedo spesso: cosa accade dentro di noi dopo un’esposizione così prolungata alla brutalità?.»
Prima di alcuni tuoi racconti c’è un disclaimer che avverte che i contenuti potrebbero essere anche molto forti e non adatti ad un pubblico particolarmente sensibile…
«Mi piacerebbe una narrazione più continua e inclusiva dove non dover inserire i disclaimer, ma per poter essere autentici non si può edulcolare la realtà. La presa di conscienza parte anche da questo.»
Il tuo rapporto con il dolore e la paura della morte è cambiato in questi anni?
«Si, ha dovuto farlo. Nel mio lavoro cerco di concentrarmi sulle sofferenze dei vivi, su chi è rimasto, su chi può ancora beneficiare della nostra attenzione. È una scelta consapevole, perché queste persone spesso spariscono dal nostro sguardo e dal nostro interesse, nonostante abbiano bisogno di aiuto per ricostruire le loro vite.»
Hai saputo utilizzare i social network per raccontare storie profonde in un mondo dove spesso regna l’intrattenimento più leggero. Come ci sei riuscita?
«Credo che i contenuti complessi abbiano sempre un pubblico. I social sono strumenti che uso come vetrina per contenuti più approfonditi, come articoli o podcast. Ad esempio, le immagini che pubblico su Instagram o Twitter (ora X) danno un volto e un contesto alle storie che racconto, incuriosendo il pubblico e portandolo a esplorare il resto del mio lavoro. È un modo per rendere più accessibili racconti complessi, senza cedere alla semplificazione estrema.»
Tra tutte le storie che hai raccontato, ce n’è una che ti ha messo particolarmente a dura prova?
«Sì, una in particolare: un’intervista a una ragazzina in un ospedale di Medici Senza Frontiere ad Amman, in Giordania. Era una bambina mutilata durante un bombardamento.Aveva perso entrambi i genitori e si trovava in una condizione di sofferenza fisica ed emotiva indescrivibile, ma ciò che mi ha colpito è stata la sua incredibile forza, il suo sguardo fermo e il modo in cui, nonostante tutto, trovava ancora il coraggio di sorridere. Raccontare la sua storia è stato difficilissimo. Ci sono momenti in cui ti chiedi se sia giusto esporre il pubblico a un tale livello di dolore, e anche quanto sei capace di rendere giustizia a chi ti sta raccontando la propria vita. Alla fine, credo che il nostro compito sia dare voce a chi non ce l’ha, sempre con il massimo rispetto e sensibilità.»
La difficoltà è stata più giornalistica o umana?
«Raccontare la sua storia è stato difficile su tutti i livelli. C’è sempre il rischio di sentirsi inadeguati, di non riuscire a rendere pienamente giustizia a un dolore così grande. Ma ho capito che il mio compito non era solo riportare i fatti, ma anche trasmettere il suo coraggio, il suo esempio di resistenza. Ecco, quella storia mi ha lasciato una traccia indelebile. Mi ha insegnato che, anche nei momenti più bui, ci sono frammenti di speranza che meritano di essere portati alla luce, non solo per chi vive quelle tragedie, ma anche per chi ha bisogno di ricordare che l’umanità può trovare una via d’uscita, anche nelle situazioni più disperate.»
Quando si ritorna a casa dopo queste esperienze come si rivaluta la propria realtà quotidiana?
«Tornare a casa dopo un’esperienza del genere non è mai facile. È come se si rimanesse in bilico tra due mondi, il nostro e quello delle persone che ho incontrato. Ma alla fine, proprio quelle storie sono il motore che mi spinge ad andare avanti, a continuare a raccontare, a credere che fare luce su certe realtà abbia un significato profondo.»
La buona informazione ha il compito di raccontare il mondo, e di essere Cecilia, spesso si dice che la libertà del giornalismo rappresenti un termometro per misurare la democrazia e la libertà di un paese. Sei d’accordo con questa affermazione? Quanto pensi che sia difficile, oggi, garantire un giornalismo libero e indipendente, sia in Italia che nel mondo?
«Un paese libero deve tutelare la libera circolazione di idee e di opinioni diverse tra loro. Il giornalismo ha un ruolo cruciale in tutto questo. Nonostante le difficoltà economiche e politiche che colpiscono il nostro mestiere, resta uno strumento potente per illuminare le ombre, per dare voce a chi non ne ha. Se il giornalismo saprà adattarsi ai nuovi mezzi di comunicazione senza perdere la sua etica e la sua profondità, allora può davvero fare, ancor, la differenza.»
Come ultima domanda parafrasiamo sempre il titolo del nostro magazine e chiediamo come vede il “Domani” Ceclia Sala quali sono le tue speranze e le tue paure?
«Il Domani lo vedo complesso, sfaccettato, ma non privo di speranza. Credo che viviamo in un’epoca in cui le sfide globali, dal cambiamento climatico ai conflitti, ci spingono a fare i conti con le nostre responsabilità in modo più diretto e urgente. Ma vedo anche segnali di cambiamento. Ci sono giovani giornalisti, attivisti, persone comuni che si mobilitano, che non accettano più un sistema basato sull’ingiustizia e sulla disinformazione. Quanto al domani personale, penso che ciò che mi motiva oggi continuerà a guidarmi: raccontare storie che meritano di essere conosciute e farlo con onestà. Non so dove mi porterà il mio percorso, ma sono certa di una cosa: continuerò a cercare frammenti di verità, ovunque si trovino. E se riuscirò a trasmettere anche solo un po’ di quella verità al pubblico, allora sentirò di aver fatto la mia parte. Perché, per me, il Domani è fatto delle scelte che facciamo oggi, e raccontare il mondo è il mio modo di contribuire a costruirne uno migliore.»
Intervista esclusiva a cura di Simone Intermite