Bruno Barbieri, non ha certo bisogno di presentazioni. Lo Chef da Sette Stelle Michelin in oltre quarant’anni di carriera è riuscito a diventare bandiera del sapore del Made in Italy nel mondo partendo a diciassette anni con una valigia piena di sogni da Medicina, un piccola cittadina in provincia di Bologna, attraversando con impegno e costanza tutto il mondo, dalla Spagna al Libano, dal Brasile alla Turchia, con il cuore sempre diviso a metà, tra l’amore per la propria terra e la voglia di scoprire paesi lontani mettendo sempre al centro i valori del lavoro, della fatica, della tenacia e dello svegliarsi all’alba ogni giorno tramandati della sua famiglia. Il Masterchef esploratore del gusto oltre ad essere pronto per una nuova stagione del talent con l’inseparabile Antonino Cannavacciulo e Giorgio Locatelli ha lanciato per le festività il suo personale Panettone Stellato e una speciale versione limited edition del Panettone al Passito da 800 grammi, realizzato solo con materie prime di altissima qualità in cui il profumo delicato degli agrumi canditi e la tradizionale uva sultanina, si incontrano sotto una golosa glassa di zucchero. Ma non è tutto il progetto ha anche una doppia finalità benefica perchè parte del ricavato delle vendite del panettone tradizionale sarà devoluto ad ANT (Associazione Nazionale Tumori), con cui lo Chef  collabora da oltre 10 anni. Noi di Domanipress abbiamo avuto il piacere di ospitare nel nostro Salotto Digitale Bruno Barbieri per parlare con lui di sapori made in italy, di ricordi e di valori che scaldano il cuore ad ogni latitudine.

Siamo in pieno periodo di feste..come vivi questo momento?

«Le feste mi divertono. L’unica cosa che mi mette un po’ d’ansia è il tempo che passa. Mi chiedo sempre è già passato un anno?».

Quest’anno il natale si colora del tuo panettone stellato realizzato fresco, a mano ed in edizione rigorosamente limitata. Nella sfida tra Pandoro e Panettone tu hai scelto la tradizione…

«Sì, sono molto felice di aver realizzato questo progetto. Per un cuoco quando si produce qualcosa in cucina è sempre un momento di felicità. Devo precisare che il panettone, ormai, è diventato una moda in tutto il mondo. In qualsiasi angolo del pianeta si consuma questo dolce tradizionale italiano; è un dato da esaminare in maniera attenta, perché racconta a la storia del nostro paese…».

La scelta di produrre un panettone nasconde anche un’intento benefico nobile.

«Io collaboro da molti anni con l’ANT, un’associazione estremamente importante, perché lavora per le persone che intraprendono un percorso difficile della loro vita e devo dire che tutti i volontari sono devoti alla loro missione in maniera esemplare. Non nascondo di aver avuto bisogno di loro, per un caso di tumore in famiglia. Mi sono accorto che, ancora oggi, quando si pronuncia la parola cancro si ha paura, tutto il mondo intorno a fa un passo indietro».

Come hai affrontato questa prova della vita?

«I volontari ANT mi hanno supportato moltissimo nell’assistere mia nonna. Non c’era nessuno intorno a me pronto ad aiutarmi, gli amici nei momenti di bisogno spesso se ne vanno e quindi non è scontato l’ arrivo di questi angeli straordinari. Oltre al supporto specialistico hanno fatto vivere la sua malattia in casa…senza pagare niente. Io cerco di sostenerli  con azioni benefiche da dieci anni…nel mio piccolo faccio ciò che posso, è il mio modo di dire grazie».

Produrre un panettone significa scontrarsi con una dura concorrenza. Cosa ha di speciale quello di Bruno Barbieri?

«Devo dire che quest’anno abbiamo fatto una ricerca ancora più approfondita, perché poi sono anche un po’ paranoico, cerco sempre di andare oltre i limiti e di perfezionarmi. Abbiamo scelto le mandorle migliori in Sicilia e poi abbiamo scelto la Francia, nello specifico Saint Remy, per trovare i canditi più gustosi del mondo. Mi piace l’idea che quei cinque minuti che dedichi ad assaggiarne una fetta, possano diventare un viaggio, anche sensoriale. Aggiungerei che il panettone ha una versatilità incredibile, si trasforma in mille modi può essere un antipasto, un soufflé…non ci sono limiti».

Quali sono i ricordi della tua infanzia legati al Natale?

«Un mese prima che arrivassero le feste, preparavamo con mia sorella la letterina scrivendo tutto ciò che chiedevamo ai nostri genitori e non a Babbo Natale. Mi divertivo a decorarle con i brillantini, disegnavo una bella copertina. Mio padre era sempre fuori per lavoro a quei tempi e io ci soffrivo molto».

Ricordi ancora cosa avevi scritto nella lettera?

«Certo, nella letterina chiesi un guanto da baseball, avevo questo desiderio. Purtroppo rimasi deluso, non lo ricevetti per Natale ma poi i miei genitori me lo fecero trovare per la mia prima comunione…».

Durante le feste si vivono momenti di allegria e di socialità, sopratutto a tavola e in cucina, nel tuo regno. Quale consiglio ti sentiresti di dare per prepararsi al meglio?

«Le feste per le nostre tavole sono un periodo veramente straordinario, raccontano la nostra tradizione, poi magari per l’ultimo dell’anno ti puoi lanciare a realizzare cose anche un po’ proibite, estremi e folli. A Natale deve esserci la tradizione, i ravioli, i tortelli e il classico capitone».

Che tipo di ricette bisognerebbe prediligere?

«In quei tre o quattro giorni di pausa bisogna solo divertirsi. Per non sbagliare è bene programmare ricette semplici e che non richiedano di essere sempre in cucina mentre gli altri chiacchierano in salotto. Quindi bisogna regolarsi con dei cibi che possono essere messi in forno all’ultimo momento. Penso alle lasagne ai carciofi, già preparate, oppure all’astice e le capesante, bisogna seguire il motto del facile e buono. Mi piace anche molto lavorare con quello che c’è disponibile al momento, evitando gli sprechi».

A proposito di sprechi, gli chef stellati ultimamente hanno un occhio attento al tema della sostenibilità e della riduzione dello spreco di materie prime…

«Beh, devo dire che è cambiato molto il modo di cucinare, ma non tanto negli sprechi, perché gli Chef sono da sempre abituati a non buttare via niente; ci hanno sempre insegnato, fin dal primo giorno che siamo entrati dentro alla cucina, che il risparmio e ii rispetto del cibo è fondamentale. Prima di arrivare sulle nostre tavole un pomodoro, ad esempio, ha percorso un viaggio: c’è stato chi l’ha prodotto, chi l’ha seminato e coltivato poi da lì, con grandi sforzi, approda nelle nostre cucine dove lo trasformiamo. A questo aggiungo che il mio motto è che un grande cuoco è bravo a far da mangiare anche quando i frigoriferi sono vuoti. Mi capita di risolvere gli inviti dell’ultimo momento con accostamenti anche folli che però hanno un senso. La cucina infondo è questo, un’arte creativa ma anche volersi bene e amare qualcuno riuscendo a dare piacere attraverso il palato».

Dopo Masterchef la figura professionale del cuoco ha assunto una rilevanza maggiore, facendo diventare la passione per i fornelli anche una professione ambita dai giovani…

«I programmi tv hanno elevato il ruolo dello Chef, è diventato un mestiere importante e siamo riusciti a dare un senso alla gente che non va più al ristorante solo per riempirsi la pancia ma per vivere un’esperienza. Dietro il cibo c’è una storia, oltre che la cultura di un popolo e di una nazione. Il compito del bravo Chef è raccontare tutto questo. Se vogliamo è come se fosse un narratore…».

Da Macron fino al governo italiano attuale si parla spesso del concetto di sovranità alimentare. Tu che hai viaggiato in giro per il mondo ed hai una visione completa della materia, credi che il made in italy sia in pericolo? Quali possono essere le misure più efficaci da adottare in tema di tutela del Made in Italy?

«Ultimamente vivo spesso negli Stati Uniti, era un’area geografica che mi mancava e avevo bisogno di capire come mangiano gli Yankee e come mai sono così specializzati nei barbecue. In questi anni mi sono reso conto che noi italiani siamo veramente seduti sulla nostra fortuna. Quando in America vado ad un party o incontro gente e scoprono che sono italiano è come se si accendesse una lampadina. Gli americani ci stimano vogliono sapere come lavoriamo e produciamo i nostri prodotti. In altre parole,vogliono il Made in Italy e questo è straordinario. Di contro, noi italiani abbiamo bisogno di imparare una cosa dagli anglosassoni: la capacita di fare squadra. Dobbiamo smetterla di voler essere protagonisti solitari. Noi siamo protagonisti tutti, dobbiamo vincere insieme! Abbiamo non solo nel cibo delle eccellenze straordinarie. Quando dentro la metropolitana a New York, vedo qualcuno vestito bene sono sicuro che veste italiano. Quando vado a mangiare in un ristorante in una qualsiasi parte del mondo e se dico “Sai cosa c’è Che ho mangiato bene questa sera!! sono sicuro che uno dei due cuochi è italiano. Dobbiamo imparare a valorizzare il nostro patrimonio, al di là di quello che sono le idee politiche di ognuno di noi, e capire che non siamo secondi a nessuno».

Nel calcio però non siamo riusciti a qualificarci ai Mondiali…

«Vero, ci sono i mondiali di calcio oggi, perché non c’è l’Italia? Facciamoci una cazzo di domanda. Bisogna mettercela tutta e per farlo è necessario passare il testimone ai giovani».

Il nostro non è  ancora un paese per giovani, sei d’accordo?

«In America qualsiasi persona che ha del talento ha la possibilità di emergere e di diventare qualcuno. Nel nostro paese i cervelli fuggono. Secondo me è necessario guardare cosa fanno gli altri ,perché se noi siamo sempre rinchiusi dentro al nostro ristorante o il nostro mondo non capiremo mai che cosa succede».

Per questo all’età di diciassette anni hai lasciato il tuo paesino in provincia di Bologna con lo zaino in spalla?

«Io ho fatto delle rinunce nella mia vita, ma ho girato il mondo. Ho conosciuto gente, visto cucine e incontrato persone in strada. Succedono delle cose veramente straordinarie quando ti muovi».

In questo tuo percorso faticoso non hai nessun rimpianto?

«Ho commesso anche degli errori, ma questo mi ha fatto crescere come persona. Non avrei mai potuto fare il cuoco dentro a una gabbia buttando via la chiave e restando fermo per tutta la vita».

Oltre all’universo della cucina sei risciuto anche ad alzare lo standard nel settore dell’accoglienza e dell’hotellerie…In questo con il format “Quattro alberghi” sei diventato un pioniere.

«Sono felicissimo di questo, volevo andare a scovare quello che era l’arte dell’hotellerie italiana che era rimasta ferma agli anni 60-70, ma che si sta evolvendo in questo ultimo periodo. Io rompo le palle con il top per i cuscini ed altri dettagli perché è importante che anche un soggiorno in hotel comunichi un mood giusto».

Molti ti seguono per imparare a scegliere l’hotel giusto…

«Certo, io per esempio un hotel che fa vedere solo immagini di un vaso di fiori o di un mobile non mi fido! Voglio vedere ambienti, gente che sta facendo delle azioni non delle foto criptiche».

Ti è mai successo di prendere una cantonata?

«Mi è successo spesso, l’ultima volta a San Francisco. Ho prenotato un hotel, mi sembrava bellissimo, strafigo e pensavo di vedere  tutta la Downtown dalla finestra. Ma al mio arrivo ho capito che ero stato gabbato. Apro la finestra  e difronte c’era il muro di un’altra casa».

L’accoglienza alberghiera la dice lunga sull’ospitalità di una nazione…

«Le strutture alberghiere sono il biglietto da visita del nostro paese,  sono felice di essere stato il pioniere di un nuovo storytelling. Ci vuole sempre qualcuno che accende una miccia».

Oltre tutti questi progetti è partita anche la nuova stagione di Masterchef, un format che ti appartiene.

«Ho partecipato a tutti i Masterchef ed ho la M stampata sulla fronte, umilmente credo che al di là forse del mio talento c’era bisogno anche all’interno di qualcuno che fosse disposto ad  essere quella parte un pochino più tecnica e cinica».

Durante il talent show tu e i giudici Antonino Cannacciuolo e Giorgio Locatelli sembrate divertivi molto. Finzione televisiva o reale amicizia?

«Ma non è una posa è tutto vero…io sono esattamente come sono a Masterchef ed anche i miei colleghi, per questo mi sono divertito molto. Ci sentiamo spesso anche fuori dal programma, c’è anche un lato umano importante, non è solo business e lavoro».

Si dice che i cuochi, soprattutto quelli stellati, siano tutti egoriferiti. Come siete riusciti a trovare il giusto equilibrio anche caratteriale?

«Noi stiamo insieme sei mesi all’anno per registrare questo programma, quindi puoi immaginarti che con 15 ore al giorno insieme abbiamo trovato i nostri equilibri, riusciamo a capire quando uno di noi non ha voglia di scherzare e questo forse non succedeva con gli altri giudici».

Giorgio Locatelli poi sembra mettervi tutti d’accordo.

«Io sono stato quello che ha voluto fortemente Giorgio Locatelli perché è una persona equilibrata, ha uno stile e funge da avvocato di turno. Con Antonino invece siamo come fratelli, non posso fare a meno di lui. Prima o poi mi piacerebbe realizzare un film insieme, un giorno chissà lo spero».

Come ultima domanda parafrasiamo sempre il titolo del nostro magazine e chiediamo come vede il “Domani” Bruno Barbieri quali sono le tue speranze e le tue paure?

«Vedo un Domani vincente, spero che si incominci a capire che non è attraverso una guerra che si possono risolvere i problemi della gente e di questo pianeta che ci ospita, a cui dobbiamo volere bene. Il futuro è un’avanguardia che spero appartenga ai giovani bisogna lasciare spazio ed essere da modello. Oggi personalmente sono felice e vorrei vivere fino a 150 anni. Ogni giorno cerco di vedere il bicchiere mezzo pieno e mi impegno per rendere, anche se per poco, migliore la vita degli altri, anche solo con un buon piatto».

Intervista Esclusiva a cura di Simone Intermite

 

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Direttore editoriale del portale Domanipress.it Laureato in lettere, specializzato in filologia moderna con esperienza nel settore del giornalismo radiotelevisivo e web si occupa di eventi culturali e marketing. Iscritto all’albo dei giornalisti dal 2010 lavora nel campo della comunicazione e cura svariate produzioni reportistiche nazionali.