«La musica mi ha dato tutto, mi ha salvato e mi ha reso l’uomo che sono. Ogni nota, ogni palco, ogni incontro hanno segnato la mia vita in maniera indelebile. Ed è un amore che non finirà mai.»

Parlare con Bobby Solo significa aprire una finestra su oltre sessant’anni di storia della musica italiana. Nato a Roma il 18 marzo del 1945 come Roberto Satti, è un’icona intramontabile, un simbolo di un’epoca in cui la musica parlava direttamente al cuore. La sua voce profonda e il suo stile inconfondibile lo hanno reso il nostro “Elvis italiano”, un artista che ha saputo mescolare il fascino americano del rock’n’roll con l’eleganza e l’intensità melodica della canzone italiana. La carriera di Bobby Solo è stata da subito costellata di successi, a partire dall’indimenticabile Una lacrima sul viso, brano che ha segnato la sua consacrazione al Festival di Sanremo del 1964, quando il pubblico italiano scoprì per la prima volta quella voce capace di emozionare e travolgere. Da quel momento in poi, la strada per Bobby fu una lunga sequenza di trionfi: vittorie a Sanremo nel 1965 con Se piangi, se ridi e nel 1969 con Zingara, dischi d’oro, concerti internazionali e collaborazioni prestigiose.

Ma Bobby è anche un uomo che ha vissuto intensamente, tra successi straordinari, momenti difficili e una passione mai spenta.

In questa intervista esclusiva nel Salotto Digitale di Domanipress, Bobby  si racconta con sincerità e generosità, ripercorrendo i momenti più significativi della sua carriera, i sacrifici dietro il successo e la passione inestinguibile per la musica.

Quando hai capito che la musica sarebbe stata il tuo destino?

«Non c’è stato un momento preciso, ma un insieme di coincidenze che hanno cambiato la mia vita. Da ragazzo ero timido, magro, un po’ insicuro, come lo sono tanti adolescenti. A scuola non ero certo una star: avevo un amico muscoloso che mi faceva da scudo, mi proteggeva dalle prese in giro. E poi, a 14 anni, mi innamorai perdutamente di una ragazza americana di nome Betsy. Lei frequentava la Marymount School, una scuola di suore a Roma, e mi parlava sempre di Elvis Presley. Io, in verità, non sapevo nemmeno chi fosse.

Chi ascoltavi prima di Elvis?

«All’epoca, ascoltavo solo artisti italiani come Celentano, Mina, Tony Dallara e Ornella Vanoni. Ma Betsy continuava a dirmi: ‘Devi ascoltare Elvis’. Così chiesi a mia sorellastra Fiorenza, che viveva negli Stati Uniti, di spedirmi qualche disco. Lei mi inviò tre 45 giri e tre long play di Elvis, e fu la fine di tutto. Rimasi incantato. Elvis aveva qualcosa di magico, una voce unica, un carisma irresistibile.»

Come sei passato da quel ragazzo timido a firmare il tuo primo contratto discografico?

«A 18 anni frequentavo il liceo classico e studiavo con un professore di ripetizioni di greco. Un giorno, confidai a lui il mio sogno di fare il cantante. Mi disse che nelle sue lezioni c’era anche Lorenzo Lo Vecchio, il cui fratello, Andrea Lo Vecchio, lavorava come paroliere alla Ricordi, una delle case discografiche più importanti dell’epoca. Lorenzo mi portò a Milano e mi introdusse alla Ricordi. Quel giorno fu un vero film. Ero seduto nella sala d’attesa, tremavo di paura, ma volevo farcela. Per darmi un tono, presi una chitarra appoggiata al muro e iniziai a cantare due pezzi di Elvis. A un certo punto, si aprì una porta ed entrò il direttore artistico Vincenzo Micocci. Mi guardò e mi chiese: ‘Chi stava cantando?’. Pensavo di aver combinato un disastro. Invece, mi invitò nel suo ufficio e mi fece cantare ancora.»

Hai raccontato di aver fatto tournée durissime. Quanto costa davvero essere un artista?

«Il successo è bellissimo, ma porta con sé anche tanti sacrifici. Le tournée erano estenuanti. In Francia facevamo due spettacoli al giorno, uno alle 14.30 e uno alle 21, in palazzetti pieni da 5.000 persone. Ogni tappa significava centinaia di chilometri in macchina.

Cosa puoi svelarci dei tuoi retroscena?

«Dormivo pochissimo, mangiavo un panino al volo, e la schiena a volte mi faceva impazzire. Ma tutto spariva non appena salivo sul palco. Sentire l’applauso del pubblico, vedere quelle migliaia di persone emozionate, ripagava ogni fatica. Ancora oggi, a quasi ottant’anni, provo la stessa emozione. È faticoso, certo, ma la passione per la musica è la mia benzina.»

Cosa ne pensi delle nuove generazioni di artisti e della musica di oggi?

«I giovani hanno talento, è innegabile. Ma ciò che manca sono le canzoni: le melodie che entrano nel cuore e restano per sempre. Ai miei tempi, ogni brano aveva un’anima, una storia. Oggi la musica è più veloce, più frammentata, e spesso si perde l’emozione.»

Quindi oggi non c’è nessuno che ti emoziona?

«Non voglio essere critico, anzi. Credo che molti ragazzi abbiano voci straordinarie, ma serve qualcosa in più. Prendiamo il country americano: Beyoncé ha inciso un album country di recente, e sta riportando alla luce un genere meraviglioso. Lei si, mi piace molto. La musica deve guardare avanti, ma senza dimenticare il passato.»

Little Tony è stato un tuo grande amico e compagno di palco. Che ricordo hai di lui?

«Tony era come un fratello maggiore per me. Ci siamo conosciuti a Sanremo, e da quel momento non ci siamo più lasciati. Era impeccabile: curava ogni dettaglio, dal trucco ai capelli, mentre io ero più disordinato. Era generoso, allegro, e mi ha insegnato molto. Abbiamo condiviso palchi, tournée e cene in ristoranti meravigliosi.»

Si diceva fosse molto determinato a livello professionale…Nessuna rivalità?

«Era un perfezionista, ma aveva un cuore grande. Tra noi non c’è mai stata rivalità, anche se i nostri manager si facevano la guerra. Mi manca moltissimo. Tony aveva una presenza straordinaria, e la sua assenza si sente.»

Il vostro segreto di bellezza “Il ciuffo ribelle”. Come si ottiene?

«Little aveva sempre con se pettini di dimensioni diverse e la lacca per cotonare il ciuffo. Portava questa valigetta ovunque e prima di esibirsi controllava che il suo look fosse a posto. Ho imparato da lui.»

Come ultima domanda parafrasiamo sempre il titolo del nostro magazine e chiediamo come vede il “Domani” Bobby Solo quali sono le tue speranze e le tue paure?
«Il Domani lo vedo come un dono. Ho un figlio di 12 anni, e voglio restare qui il più a lungo possibile per lui. Quando ero giovane, non capivo il valore della paternità come lo comprendo ora. Oggi so quanto sia importante esserci. E poi, finché il pubblico vorrà ascoltarmi, continuerò a cantare. La musica è la mia vita, e lo sarà fino all’ultimo respiro.»

 

Intervista esclusiva a cura di Simone Intermite

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Direttore editoriale del portale Domanipress.it Laureato in lettere, specializzato in filologia moderna con esperienza nel settore del giornalismo radiotelevisivo e web si occupa di eventi culturali e marketing. Iscritto all’albo dei giornalisti dal 2010 lavora nel campo della comunicazione e cura svariate produzioni reportistiche nazionali.