Sulle note di Figli delle stelle si è danzato, sognato, amato. Un brano che non è solo musica, ma un frammento di vita collettiva, un inno che ha attraversato generazioni senza perdere un grammo del suo fascino. Perché certe canzoni non appartengono a un’epoca: sfidano il tempo, si fanno eterno presente.

Dietro questa magia c’è Alan Sorrenti, un artista che ha saputo reinventarsi, attraversando decenni con una curiosità inesauribile e una voce inconfondibile. Nato a Napoli nel 1950 da madre gallese e padre italiano, la sua carriera è un viaggio attraverso le sonorità più diverse, dall’avanguardia del progressive rock alle atmosfere sofisticate del soul, dall’elettronica sperimentale fino alla melodia della canzone d’autore. Un camaleonte musicale, capace di superare barriere stilistiche e trovare sempre nuove forme di espressione.

Il debutto arriva nei primi anni ’70 con Aria (1972), un album visionario che lo impone come uno dei talenti più originali della scena progressive italiana. Il disco, con la collaborazione di Jean-Luc Ponty, è un’opera complessa e innovativa, dove la voce di Sorrenti diventa uno strumento evocativo, liquido, quasi ipnotico. Ma la sua musica è destinata a cambiare ancora: negli anni successivi abbraccia il pop internazionale e, con Figli delle stelle (1977), segna una svolta epocale. Quel sound cosmopolita, tra funky e disco, lo consacra come icona, facendo ballare e sognare l’Italia intera. Poi, nel 1979, arriva Tu sei l’unica donna per me, ballad intrisa di romanticismo che domina le classifiche e gli regala il successo definitivo.

Dopo una carriera che lo ha portato in giro per il mondo, tra esperimenti elettronici e ritorni alle radici, Alan Sorrenti oggi non guarda al passato con nostalgia, ma con la voglia di esplorare ancora. Il suo ultimo album, Oltre la zona sicura, è una dichiarazione di intenti: spingersi oltre, uscire dalla comfort zone e abbracciare nuove vibrazioni musicali. Un lavoro che mescola synth raffinati, influenze world music e testi che parlano di crescita interiore, di viaggio, di libertà.

L’ abbiamo incontrato nel Salotto di Domanipress per parlare di musica, spiritualità e di quel percorso – artistico e personale – che continua a portarlo sempre un passo più in là.


Dal rock progressivo alla disco music, passando per la canzone d’autore: sei sempre stato un artista in evoluzione. Guardandoti indietro, cosa ti ha spinto a cambiare e sperimentare così tanto?

«Ho sempre avuto un’anima ribelle, una voglia irrefrenabile di esplorare. La mia musica è stata il riflesso di quello che vivevo e di ciò che mi affascinava in ogni momento della mia vita. Ho iniziato nel progressive perché in quegli anni era la dimensione perfetta per chi voleva rompere gli schemi, poi ho sentito il bisogno di avvicinarmi a un linguaggio più universale, come quello della disco music. Ogni mia fase è stata una naturale evoluzione, mai un calcolo.»

Nel 1977, con Figli delle stelle, hai segnato una svolta epocale per la musica italiana. Cosa ricordi di quel periodo e del successo improvviso?

«Era un momento magico. L’Italia stava cambiando, c’era voglia di leggerezza, di ballare, di sognare. Quando ho scritto Figli delle stelle, ero appena tornato da Los Angeles, dove avevo respirato quell’energia musicale travolgente. Ho capito che volevo portare qualcosa di nuovo nel nostro panorama: una musica che facesse muovere, ma che avesse anche un messaggio positivo. Quando la canzone è esplosa, mi sono reso conto che avevo intercettato un sentimento collettivo. È stato incredibile.»

Parliamo di Figli delle stelle. La ascoltiamo da decenni, ma il suo significato non smette di evolversi. Come la dobbiamo leggere oggi?

«La forza di Figli delle stelle non sta solo nella musica, che ancora oggi suona incredibilmente fresca, ma in un’illuminazione parziale che ho avuto una sera. Avevamo già la traccia, e mentre scrivevo il testo, sentivo che quel pezzo aveva un’energia speciale. Era una notte stellata, il cielo era limpido, e io vivevo un periodo di grande vitalità. Mi sono sentito parte di qualcosa di più grande. È così che è nata la frase: “siamo figli delle stelle”. L’ho scritta quasi in stato di trance.Negli anni ‘70 e ‘80 era un inno a una rivoluzione di costume, a uno stile di vita libero. Oggi la sento come un messaggio più profondo: un richiamo all’appartenenza all’universo, alla ricerca di un senso più alto.»

Il tuo nuovo album si intitola “Oltre la zona sicura”. Ma c’è mai stata, per te, una zona sicura?

«In realtà no. Ho sempre vissuto oltre. Fin dall’inizio, con il progressive, quando il mio primo album ‘Aria’ fu un terremoto nella scena musicale italiana. Poi sono volato in America e ho creato un sound completamente nuovo con ‘Figli delle stelle’, che in Italia non esisteva. La zona sicura, per me, sarebbe stata adagiarmi sugli allori, replicare formule già testate. Ma ogni volta ho sentito il bisogno di spingermi oltre, di rimettermi in gioco. Dopo il Covid, ho sentito di doverlo fare ancora una volta, e così è nato questo album.»

Hai vissuto molte generazioni musicali. Oggi che rapporto hai con i giovani artisti?

«In ‘Oltre la zona sicura’ ho lavorato con Stefano Ceri, un produttore di talento, molto vicino alla nuova scena musicale. Ho registrato con artisti giovani, respirato la loro energia. Sai, all’inizio ero scettico: mi chiedevo se avessi ancora qualcosa da dire per loro. Poi ho scoperto che il mio lavoro era ancora molto rispettato. I ragazzi riconoscono il valore della mia musica, la percepiscono come attuale. È stato un grande stimolo.»

A proposito di stelle, hai lavorando a un progetto speciale legato allo spazio…

«Sì, il 10 agosto dello scorso anno, nella notte di San Lorenzo, è stato lanciato nello spazio un audio-video messaggio contenente ‘Figli delle stelle’. Un progetto chiamato ‘Star Bottle’, realizzato con Telespazio, che permetterà alla mia musica di viaggiare oltre la Terra, verso la Via Lattea. È un’idea affascinante: la musica come messaggio interstellare.»

Hai un’anima nomade, hai viaggiato molto nella tua vita. Ma il ritorno a Napoli cosa ha significato per te?

«Da giovane mi sentivo un estraneo a Napoli. Mia madre era gallese, passavo molto tempo in Gran Bretagna, la mia musica era internazionale. Napoli mi sembrava un luogo chiuso, distante da ciò che volevo essere. Poi ho capito che faceva parte di me. Quando ho reinterpretato ‘Dicitencello vuje’ ho voluto dare una lettura psichedelica a un classico della tradizione. Era il mio modo di riconciliarmi con la mia città. Da lì, poi, sono andato in Africa, ho scoperto il linguaggio del ritmo, e infine l’America. Ogni tappa ha aggiunto un tassello alla mia identità.»

Negli anni ‘80 hai intrapreso un percorso buddista. Qual è l’insegnamento che più ha trasformato la tua vita?

«Un principio fondamentale: ‘I desideri terreni sono illuminazione’. Quando l’ho scoperto, ho capito che non dovevo rinunciare a nulla per evolvermi spiritualmente. Potevo continuare a desiderare, a cercare. Non si tratta di negare le passioni, ma di affinarle, renderle più nobili. Il buddismo mi ha insegnato che la vita non è solo per me, ma anche per gli altri. Questo ha cambiato tutto: prima vivevo per me stesso, ora concepisco la mia esistenza come parte di un disegno più grande.»

E il karma? Quale pensi sia il tuo?

«Un karma doppio: da un lato fortunato, dall’altro impegnativo. Ho sempre dovuto confrontarmi con le mie debolezze, ma ho anche avuto il dono di una grande creatività. Il buddismo mi ha insegnato che il karma non è una condanna, ma qualcosa che si può trasformare. E ogni trasformazione è un atto di creazione.»

Cosa desideri oggi?

«Continuare a creare, sempre. Guardare avanti senza paura. Ho imparato che la musica non è solo un riflesso di ciò che siamo, ma anche una porta su ciò che possiamo diventare. E io voglio vedere cosa c’è oltre.»

Come ultima domanda, parafrasiamo sempre il titolo del nostro magazine e chiediamo: come vede il “Domani” Alan Sorrenti, quali sono le tue speranze e le tue paure?

«Il Domani è un mistero affascinante. Ho fiducia nel potere della musica e dell’arte di unire le persone, di farle sognare. Spero che le nuove generazioni abbiano la libertà di esprimersi senza compromessi, di trovare la loro voce senza doversi adeguare a ciò che il mercato impone. La mia paura? Che si perda l’autenticità, che si smetta di cercare la bellezza per inseguire solo il successo immediato. Ma io resto ottimista: la musica vera trova sempre il suo spazio.»

Intervista esclusiva a cura di Simone Intermite

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Direttore editoriale del portale Domanipress.it Laureato in lettere, specializzato in filologia moderna con esperienza nel settore del giornalismo radiotelevisivo e web si occupa di eventi culturali e marketing. Iscritto all’albo dei giornalisti dal 2010 lavora nel campo della comunicazione e cura svariate produzioni reportistiche nazionali.