New York è una città che non dorme mai, è vero. Ma mangia sempre, ed è forse per questo che ha imparato a distinguere il falso dall’autentico anche a tavola. È una metropoli che ha fatto sua ogni cultura, ogni lingua, ogni piatto. Ma tra tutte, l’Italia gastronomica è quella che continua a esercitare il fascino più potente. Il punto è: si può davvero mangiare bene, come in Italia, a New York? Senza cadere nella trappola dell’“italian sounding”? La risposta, per fortuna, è sì. Ma bisogna saper scegliere. E soprattutto, bisogna fidarsi del passaparola. Quello vero.
Chi ha nostalgia del Bel Paese e non si accontenta di un piatto di “fettuccine Alfredo” – che, lo ricordiamo, non esistono nella vera cucina italiana – può ancora trovare luoghi dove i sapori sono autentici, i prodotti arrivano da piccoli produttori italiani, e il servizio è fatto con quell’accoglienza calorosa che sa di casa.
Nel cuore dell’East Village, per esempio, c’è Ribalta, un tempio della vera pizza napoletana dove l’impasto lievita per ore e il forno a legna canta. “Quando addento la loro margherita, mi sembra di essere a Napoli. È l’unico posto dove porto mio padre quando viene in città”, racconta Giulia, 29 anni, napoletana trapiantata a New York per lavoro.
Dall’altra parte della città, a Flatiron, c’è Rezdôra, regno delle paste emiliane fatte a mano. Tagliatelle, tortelloni, passatelli: ogni piatto è un tributo all’Emilia-Romagna, ma servito con eleganza newyorkese. “Non ho mai trovato i cappelletti con questo equilibrio nemmeno a Bologna”, confessa Ben, americano con una passione ossessiva per la cucina regionale italiana.
E ancora, a Brooklyn, il quartiere dove le nuove generazioni italoamericane stanno riscrivendo le regole della ristorazione, spuntano veri e propri gioielli: piccoli ristoranti che sembrano trattorie di provincia, dove si trovano i pomodori del piennolo, le olive taggiasche, e il pane fatto con lievito madre. “Qui non ci sono fronzoli. Solo pasta e passione”, dice Lorenzo, chef romano che ha aperto il suo locale tra Williamsburg e Greenpoint.
E poi ci sono le storie. Come quella di Teresa, che ha lasciato la Puglia per aprire una pasticceria a Soho dove i pasticciotti e le zeppole vanno a ruba: “Ogni volta che un cliente assaggia il mio dolce e mi dice ‘mi ricorda mia nonna’, io so che ho fatto centro”.
Perché il cibo italiano, quando è vero, non è solo una questione di gusto. È memoria, identità, emozione. È un piatto di pasta che ti fa sentire meno solo. È un risotto che ti riporta a Milano anche se sei a due passi da Central Park.
Certo, i prezzi sono spesso “a stelle e strisce” e non mancano i tentativi maldestri di imitazione. Ma chi sa cercare troverà anche piccole osterie con grandi vini, cucine a vista, fornelli accesi dalla mattina alla sera, e soprattutto, persone che cucinano con rispetto per la tradizione. “Non è questione di ricette”, dice Antonio, cameriere lucano da trent’anni a Manhattan, “ma di cuore. E quello o ce l’hai, o non lo impari”.
La verità è che oggi l’Italia a New York non è un ricordo edulcorato, ma una realtà viva. Ha accento toscano, calabrese, veneto. Parla in dialetto, impasta a mano, serve piatti che raccontano storie. E chi li mangia – italiani, americani, turisti – lo sa bene: non c’è nostalgia che non si possa curare con un buon piatto di lasagne.
Sì, a New York si può mangiare italiano davvero bene. Ma come tutte le cose preziose, va scoperto con lentezza. Magari seduti su un tavolino di legno, con un calice di rosso, e il cuore che batte un po’ più forte, come succede solo quando ti senti a casa, lontano da casa.