Numero uno: “Nessuno dovrà restare povero perché altri si arricchiscano”.
Numero due: “Nessuno potrà dire ad altri per cosa vivere o per cosa morire”.
Numero tre: “Ciò che semini in terra, tu stesso lo coltiverai e raccoglierai, e nessuno potrà portartelo via”.
Sono questi i principi imprescindibili su cui si fonda the Free State of Jones (lo Stato Libero di Jones). Uno Stato nato e cresciuto insolitamente in un’epoca di morte, emerso con tenacia dal cruento bagno di sangue della Guerra Civile americana. Uno Stato sorto involontariamente come contestazione verso le atrocità del conflitto statunitense. Edificato da gente modesta, che ha avuto però il coraggio di opporsi alla crudeltà di un massacro comandato da chi non vuole rinunciare per nessun motivo ai propri privilegi, acquisiti con disumani gesti di brutalità e ferocia. Da questo crogiuolo di ribelli e disertori spicca la stanca, ma robusta figura di Newton Knight (interpretato da uno straordinario Matthew McConaughey scavato nelle guance, allo stesso tempo vigoroso e fragile), un semplice contadino, che si fa portavoce delle sofferenze e delle ingiustizie patite dai cittadini della Contea di Jones, Mississipi.
“Free State of Jones” è una potente storia di riscatto, dove il debole, il subordinato o l’oppresso trovano la forza di alzare la testa, rifiutando una guerra che non li appartiene, nonché banchetta con i loro affetti e con i loro miseri averi, sudati nel corso di un’intera vita fatta di indigenza e di stenti.
La pellicola, tratta da un evento realmente accaduto, intona oltretutto un solidale canto di integrazione razziale, dove sia bianchi che neri di quell’epoca arrivano persino a cooperare fra di loro per un fine superiore: la libertà. La libertà di ciascun individuo, in quanto uomo, non certo quella dovuta dallo sventolamento della bandiera americana. Lo Stato Libero di Jones è in pratica una dichiarazione di emancipazione ed il desiderio di una nuova era: equa, armoniosa, ideale, giusta. Tuttavia, costantemente minata dai vecchi dissapori e dalle divergenti correnti di pensiero, che sviliscono qualsiasi tentativo di civilizzazione.
Con “Free State of Jones” Gary Ross dirige un racconto (di cui ne è anche sceneggiatore) ruvido ed asciutto nei contenuti, accompagnato raramente da tracce sonore appena sussurrate, che non necessitano di trionfalismi alcuni, e da una composizione fotografica gelida e scarna. Basta semplicemente lo schietto approccio alla vicenda, benché forse eccessivamente didascalico, a farci duramente riflettere sull’inumana insensatezza di certi capitoli della storia contemporanea. Le riprese (essenziali e mai sopra le righe), la fotografia e la musica sono solamente dei comuni strumenti che ritraggono nel modo più veritiero possibile le efferatezze che si consumano sulla scena, senza edulcorare o celare i fatti.
Così è. Punto e basta.
Principio numero quattro of the Free State of Jones: “Tutti gli uomini sono uomini. Se cammini su due gambe, sei un uomo”.
Gabriele Manca