Non servono bis, quando lo spettacolo comincia con una pioggia di coriandoli e finisce con un’uscita di scena vera. I Pinguini Tattici Nucleari parlano alla Gen Z con ironia, verità e canzoni che sembrano abbracci pop.
La felicità, a volte, pesa. Pesa 350 chili. È quella che esplode in aria alla prima canzone del concerto dei Pinguini Tattici Nucleari a San Siro, una valanga di coriandoli arcobaleno che non arriva alla fine, come da tradizione, ma subito, sulle note di «Hello World». Come se volessero dire: “Benvenuti, siete già nel momento clou. Non dovete aspettare per emozionarvi. Non dovete guadagnarvi nulla. Lo meritate e basta”.
È l’inizio di uno show che ribalta le regole della liturgia da stadio, e che lo fa con la grazia di chi non ha bisogno di gridare per essere ascoltato. La band guidata da Riccardo Zanotti — la mente lucida e malinconica dietro a ogni brano — si presenta davanti a un pubblico di 60 mila persone senza scudi, senza maschere, senza piroette da rockstar. Ma con una scaletta costruita per disorientare e accogliere, insieme.
I pezzi forti sono subito lì, messi in apertura come carte scoperte: «Giovani Wannabe», «Ringo Starr», «Romantico ma muori». Un crescendo che sembra decrescere e invece ti tiene incollato con la forza delle parole che conosci a memoria, ma che stasera ti sembrano scritte apposta per te. E poi, niente bis. Dopo l’ultima canzone, nessuna finta uscita. Solo una telecamera che segue la band nei camerini, uno schermo che si spegne. È finita davvero. E va bene così.
La pop band che non vuole sembrare una pop band
I Pinguini Tattici Nucleari non piacciono alla Gen Z: la rappresentano. Senza proclami. Senza hashtag studiati a tavolino. Con un’estetica fatta di magliette normali, di ironia disarmante, di testi che fanno ridere e commuovere nella stessa strofa. Sono l’unico gruppo capace di trasformare un paradosso in una poetica: romantici ma disillusi, danzanti ma introversi, pop ma mai superficiali.
Hanno fatto della gentilezza una forma di attivismo, della leggerezza un messaggio politico. In un panorama musicale spesso diviso tra chi vuole salvare il mondo e chi vuole solo guadagnare like, loro scelgono la terza via: abbracciare, senza giudicare. E San Siro risponde, con voci che cantano all’unisono, con occhi lucidi, con quell’entusiasmo fragile e feroce che solo chi ha vent’anni — o ricorda cosa voleva dire averli — sa riconoscere.
Perché i Pinguini parlano così bene ai ventenni?
La risposta non è nei numeri, ma nei dettagli. In ogni strofa che racconta l’insicurezza come qualcosa da accettare, non da superare. In ogni ritornello che non pretende di salvarti, ma ti tiene compagnia. In ogni scelta che dice “ci siamo anche noi”, senza salire in cattedra.
La Gen Z non cerca idoli: cerca specchi. E i Pinguini questo lo sanno. Perché sono cresciuti insieme a quel pubblico che oggi li riempie di affetto. Non c’è distanza tra palco e platea. È un dialogo, continuo, vero, che si nutre di citazioni pop, battute da gruppo WhatsApp, riflessioni da playlist notturna.
Non si atteggiano a filosofi né a profeti. Ma sanno trasformare la nostalgia in un jingle, l’amore in una battuta, la malinconia in un’eco da stadio. È questa l’alchimia che fa sì che ogni loro concerto sembri una festa in cui tutti si conoscono. Anche se non si sono mai visti prima.
Il futuro? Ce lo stanno già raccontando
Con questo tour negli stadi — nove date, 420mila biglietti venduti, due San Siro gremiti come un’ora di punta emotiva — i Pinguini non stanno solo facendo concerti. Stanno riscrivendo il vocabolario dell’intrattenimento musicale post-pandemico. Dove contano meno i fuochi d’artificio e più le parole che ti fanno restare. Dove ogni brano è un piccolo corto sentimentale da vivere insieme.
In un’epoca che brucia tutto velocemente, i Pinguini Tattici Nucleari scelgono di fare canzoni che restano. Di quelli che ti fanno cantare e poi pensare, ridere e poi ricordare. E forse non è un caso se proprio da San Siro — cattedrale del calcio, arena del rock, tempio della memoria — arriva la conferma definitiva: loro non sono una moda. Sono una generazione che canta.
E lo fa cominciando dalla fine.