C’è un momento, nella carriera di ogni artista, in cui la fragilità smette di essere debolezza e diventa linguaggio. Per Blanco, quel momento si chiama “Piangere a 90” — un titolo spiazzante, ironico, volutamente esposto, che racconta in tre parole un mondo interiore che ha smesso di cercare filtri.
Il singolo, uscito il 9 maggio, è scritto con Tananai e prodotto da Michelangelo, lo stesso team che ha già firmato alcune delle pagine più luminose del pop italiano recente. Ma qui, la luce è diversa: non è accecante, è soffusa, malinconica, quasi catartica. Un ritorno all’essenza, dopo mesi turbolenti che hanno visto Blanco oscillare tra adorazione e critica feroce.
“Piangere a 90” non è solo una canzone, è una dichiarazione d’intenti.
È il racconto di chi ha sbagliato, si è perso, ha amato male — e ha avuto il coraggio di dirlo. Nella voce rotta, nei synth trattenuti, nei versi che sembrano scritti più col petto che con la penna, c’è la voglia di ricominciare da se stessi, prima ancora che dal mercato.
C’è chi l’ha definita una mossa furba, un tentativo di riposizionamento, un “giocare la carta del dolore” per tornare al centro della scena. Ma a chi sa ascoltare, “Piangere a 90” suona esattamente all’opposto: un gesto sincero, disarmante nella sua autenticità, che rifugge i trend per abbracciare l’unico suono che conta davvero — quello della propria verità.
Blanco non ha mai avuto paura del caos. Lo ha sempre portato con sé, lo ha reso stile, rabbia, poesia. Ma oggi quel caos non è più solo un’energia da dominare: è una ferita da guardare in faccia, con occhi che hanno pianto davvero.
In un’epoca in cui tutto è performance, Blanco sceglie la vulnerabilità. E se questo è l’inizio di un nuovo capitolo, allora è il più maturo, il più potente, il più necessario della sua carriera. Perché chi ha il coraggio di piangere a 90 — e farlo sentire a tutti — ha già vinto la sua rivoluzione.