Perché la penna di Oriana Fallaci bruciava più di una Molotov

Se il giornalismo avesse una rockstar, sarebbe Oriana Fallaci. Una donna che non scriveva, ma incendiava, trasformando ogni pagina in un campo di battaglia. Non era solo una reporter: era un’arma di distruzione di massa per ogni potere che osasse mentire. Le sue parole non chiedevano permesso, sfondavano la porta e imponevano la verità con la brutalità di una guerra.

La reporter che sfidava il fuoco

Negli anni ’60 e ’70, mentre altri giornalisti raccontavano il mondo dai salotti, lei lo attraversava con il fango alle ginocchia e la paura come compagna di viaggio. Vietnam, Messico, Libano: la Fallaci non era spettatrice, ma protagonista, e quando cadeva, si rialzava con una storia più potente. Come quella volta in Messico, nel ’68, quando fu colpita durante la strage di Tlatelolco. La portarono via credendola morta. Lei si rialzò e scrisse.

Non si limitava a raccontare i conflitti, li viveva sulla propria pelle. In Vietnam, si muoveva tra le trincee come un soldato, testimoniando la brutalità della guerra e mettendo in discussione le versioni ufficiali. Il suo reportage non era mai neutrale: la Fallaci non credeva nell’obiettività assoluta, credeva nella verità, anche quando faceva male.

Il metodo Fallaci: interviste come duelli

Quando Oriana intervistava, non c’era spazio per le chiacchiere di cortesia. Ogni domanda era un proiettile, ogni risposta un’arena di scontro. Henry Kissinger, Khomeini, Arafat, Gheddafi: tutti travolti da quel ciclone toscano che non accettava risposte ambigue. La sua intervista a Kissinger, che lo fece passare per un arrogante stratega senza anima, gli costò più della guerra in Vietnam. E quando incontrò l’Ayatollah Khomeini, non si piegò nemmeno davanti al velo che le impose di indossare: lo sfidò e poi, con un gesto da puro rock and roll, se lo tolse di fronte a lui.

Era feroce ma anche incredibilmente perspicace. Sapeva quando attaccare e quando lasciare che il silenzio mettesse a nudo le contraddizioni dei potenti. Le sue interviste non erano solo domande e risposte: erano radiografie dell’anima.

L’ultima battaglia: lo scontro con il politicamente corretto

Negli ultimi anni, la Fallaci non smise mai di combattere. Ma il mondo cambiava, e il suo linguaggio brutale, la sua ossessione per la verità, cominciarono a pesare. Con “La Rabbia e l’Orgoglio”, si scagliò contro l’Islam e l’Occidente imbelle, attirando accuse di razzismo e islamofobia. Ma lei non arretrò di un millimetro. Scrisse fino all’ultimo, sfidando anche la malattia, come se la morte fosse solo un altro dittatore da smascherare.

Le critiche non la fermarono mai. Era una voce fuori dal coro, una penna che non si lasciava imbrigliare dai dogmi della correttezza politica. I suoi ultimi libri erano manifesti di rabbia, sfoghi potenti di chi non si era mai piegato a nessun potere.

Una penna di fuoco

Oriana Fallaci non era perfetta, non era diplomatica, e di certo non era docile. Era un pugno in faccia, una tempesta, una penna che bruciava più di una Molotov. E, piaccia o meno, il giornalismo non ha più avuto un’altra come lei.

Il suo stile irriverente e coraggioso ha lasciato un segno indelebile. Oggi il giornalismo è spesso imbrigliato da regole, compromessi e paure. La Fallaci, invece, scriveva come se ogni parola potesse cambiare il mondo. E forse, in parte, lo ha fatto.

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Slovena d'origine ma Milanese d'adozione, ama tutto ciò che è letteratura e gioca con le parole e le emozioni. Laureata in lingue e culture internazionali i libri ed un bicchiere di vino rosso sono la sua migliore compagnia.