Nostalgia precoce: hanno 16 anni e già rimpiangono l’infanzia: perché gli adolescenti di oggi sono stanchi di vivere

Crescono con il filtro Valencia, parlano come terapeuti e sembrano più vecchi dei loro genitori. Ma cosa succede davvero nella testa della Gen Z?


C’è una stanchezza nuova, strisciante, sottile. Non ha a che fare con il sonno, ma con l’anima. I ragazzi e le ragazze di oggi — quelli che chiamiamo adolescenti, ma che adolescenti nel senso classico non lo sono più — hanno gli occhi di chi ha già vissuto troppe vite.

Scorrono i feed come fossero romanzi, si abituano a vedere la guerra tra un video di skincare e uno di danza, si raccontano in forma di trauma, e a 15 anni hanno già la loro prima diagnosi: ansia, disturbo dell’umore, autostima fragile.

«Oggi gli adolescenti portano in terapia una forma di nostalgia precoce, come se avessero vissuto un tempo d’oro e se lo fossero lasciato alle spalle a soli dieci anni», spiega la psicoterapeuta Maria Luisa Conti, specializzata in psicologia dell’età evolutiva. «È un dolore profondo, difficile da raccontare, perché spesso non ha nemmeno un evento preciso a cui legarsi. È l’effetto di un mondo che li vuole performanti già da piccoli.»


La generazione della nostalgia precoce

Dicono che siano iperconnessi, ma in realtà sono iperesposti. Ogni pensiero può diventare virale. Ogni errore è pubblico. Non c’è spazio per sbagliare, per provare, per crescere lentamente.

Vivono in un mondo in cui tutto — dai rapporti alla bellezza — è soggetto a comparazione costante. E il confronto non è più solo con i coetanei, ma con interi eserciti di influencer, celebrities e algoritmi.

Le loro emozioni sono taggate, filtrate, monetizzate. Eppure, paradossalmente, mai come ora si sentono soli. Una solitudine nuova, fatta di silenzi digitali e cuori blu che non bastano mai.

«In passato l’adolescenza era un periodo in cui si sbattevano le porte, oggi è una fase in cui si chiudono dentro», nota lo psichiatra Riccardo Zappa, esperto di disturbi d’ansia giovanile. «Li vediamo apatici, ma spesso è il contrario: sono sopraffatti da una quantità ingestibile di emozioni, stimoli, aspettative.»


I figli dell’iperconsapevolezza

Sanno tutto. A volte troppo. A 14 anni parlano di salute mentale con una precisione da manuale. Fanno autoanalisi in forma di stories, leggono testi femministi, si dichiarano fluidi, asessuali, eco-ansiosi.

Non cercano la ribellione. Cercano un rifugio. Una casa interiore che nessuno ha insegnato loro a costruire.

Vivono tra il peso del futuro e il lutto del passato. Il presente, quello reale, sfugge sempre. È il tempo dei “vorrei ma non posso”, degli “ero felice e non lo sapevo”, dei “perché sono così stanco se ho appena iniziato a vivere?”.


E allora cosa fare?

Smettere di definirli pigri. Non lo sono. Smettere di chiedere loro di essere resilienti, come se la resistenza fosse un dovere.

Questa generazione non ha bisogno di lezioni, ma di ascolto. Non ha bisogno di adulti che giudicano, ma di adulti che riconoscano il privilegio di essere cresciuti in un tempo più lento, più silenzioso, più perdonabile.

«La cosa che i ragazzi ci chiedono di più, anche se non lo dicono apertamente, è: posso essere fragile senza deludere nessuno?», rivela la pedagogista Ilaria De Michelis. «E la nostra risposta dovrebbe essere: sì, puoi esserlo. È umano. È giusto. E non sei solo

Hanno 16 anni, sì. Ma dentro portano un peso antico. Forse non sono “la generazione perduta”. Forse sono quella che ci sta mostrando, senza filtri e senza ipocrisie, che crescere oggi è un atto di coraggio quotidiano.

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Appassionato di tecnologia ed insegnante di matematica. Crede che la vita sia un'equazione binaria. Si occupa di sostenibilità ed immagina un futuro ad emissioni zero.