Di questi tempi è quasi impossibile scorrere un social senza imbattersi in qualcuno che si sveglia alle 5 del mattino per meditare, leggere 30 pagine di un saggio, fare workout e bere un frullato di proteine e disciplina. Ogni gesto quotidiano è diventato parte di una strategia, ogni scelta un tassello di un personal branding esistenziale che trasforma la vita in un portfolio da aggiornare ogni giorno.
Abbiamo introiettato una mentalità da impresa: noi stessi come brand, il nostro tempo come investimento, le emozioni come costi e opportunità. È la filosofia del self-improvement 2.0: sei sempre a un passo dal miglioramento, e quindi mai abbastanza.
“Mi sentivo in colpa se passavo una giornata senza fare nulla,” racconta Silvia, 31 anni, content creator freelance. “Anche nei weekend cercavo di ottimizzare tutto: leggere, cucinare in modo sano, ascoltare podcast su come migliorare la mia concentrazione. Poi ho avuto un attacco di panico davanti a una lista di to-do del sabato.”
Non è un caso isolato. Secondo la psicoterapeuta Giulia Cavallini, il mito dell’auto-miglioramento continuo è una forma moderna di ansia da prestazione mascherata da empowerment:
“Il linguaggio della crescita personale è cambiato, ma il meccanismo è lo stesso: parte dall’assunto che qualcosa in noi non vada bene. È una forma sottile di controllo che alimenta frustrazione. È come correre su un tapis roulant: fai sforzi enormi ma sei sempre lì.”
La cultura del burnout gentile
Quello che ci vendono come libertà di crescita è spesso solo un altro modo per interiorizzare la pressione. Non sei obbligato a diventare “il migliore”, certo. Ma se non lo fai, allora stai sprecando il tuo potenziale. La pressione, così, si fa più subdola. Non ti viene imposta da un capo, ma da te stesso. È una dittatura che parla con la voce dell’automiglioramento, ma nasconde la stessa logica iper-performativa del mercato.
“È come se fossimo continuamente in fase beta,” dice Andrea, 28 anni, UX designer. “Non sei mai davvero pronto, mai completo. Hai sempre qualcosa da sistemare: la routine, la pelle, la mente, la dieta, i pensieri. Tutto è un lavoro su di te, e se ti fermi un attimo, ti senti in colpa.”
Ma da cosa stiamo cercando di fuggire davvero?
C’è qualcosa di profondamente umano nella voglia di migliorarsi. Il problema è quando questo bisogno diventa un’ossessione. Quando smettiamo di conoscerci per voler solo perfezionarci. Quando usiamo la produttività emotiva per evitare di guardare in faccia il disagio, la noia, l’incertezza – tutte cose che fanno parte della vita.
“Lavorare su di sé non deve diventare un modo per censurarsi,” avverte la psicologa Cavallini. “A volte, il vero lavoro è accettare di non essere sempre performanti. Riscoprire la stanchezza come un messaggio del corpo, non come un ostacolo al successo.”
Consigli per sopravvivere all’era dell’ottimizzazione costante
- Rivendica la tua inutilità.
Non tutto deve servire a qualcosa. Leggi un libro solo perché ti va. Guarda una serie trash. Dormi fino a tardi. Fai cose senza doverle raccontare. - Interrompi la narrazione.
Non sei un film in time-lapse. Ogni tanto, vivi senza testimoni. Senza caption. Senza analisi. - Sii tenero con la tua versione imperfetta.
Non devi migliorarti per meritare riposo, amore, attenzione. Le emozioni non vanno risolte: vanno sentite. - Smettila di misurarti.
Non sei un KPI. Non tutto ha bisogno di un grafico, di un confronto, di una strategia. Esisti anche nei giorni storti.
La vera rivoluzione è accettarsi.
In un mondo che ci vuole sempre in corsa, rallentare è un atto radicale. In un sistema che ci misura in termini di produttività, prendersi cura di sé senza scopi è un gesto di resistenza.
Smettere di ottimizzarsi non significa smettere di crescere. Significa scegliere di farlo con dolcezza, con ascolto, con umanità.
Perché forse la versione migliore di noi non è quella che fa di più. Ma quella che, finalmente, ha smesso di sentirsi in difetto.