Lily Allen è stata espulsa dalla dating app Hinge per “impersonificazione di sé stessa”. Sembra un paradosso perfetto dell’era digitale: ti iscrivi con il tuo nome, ma l’algoritmo non ti crede.
La cantante, reduce dalla separazione con David Harbour di Stranger Things, lo ha raccontato in un’intervista senza filtri, spiegando che la richiesta di verifica documentale ha fatto saltare il matching — complice il suo nome completo, Lily Rose Beatrice Allen, non identico a quello usato nel profilo. Il risultato? Profilo cancellato.
Il caso dice molto più di una disavventura tech: perfino chi vive di visibilità può diventare invisibile per una moderazione algoritmica. E qui sta il cortocircuito che infiamma i social: la fama è un passe-partout o un ostacolo quando cerchi un amore “normale”? Allen, che ha ammesso di preferire non frequentare altre celebrità e di usare Raya (la app su abbonamento), racconta quanto le dating app possano essere “orribili” durante un cuore infranto.
Intanto, il suo nuovo album “West End Girl” trasforma il dolore in materia pop: non un disco di vendetta, dice lei, ma un racconto brutale e liberatorio dove verità e fantasia si intrecciano. L’urgenza creativa è quella dei grandi reset: scrittura lampo, introspezione, niente vittimismo. Empowerment, prima di tutto.
Perché questa storia divide? Perché tocca un nervo scoperto della cultura contemporanea: la credibilità dell’identità online. Se persino Lily Allen non passa il controllo, che chance ha l’utente qualunque quando un algoritmo decide chi siamo? E ancora: è giusto che una piattaforma banni un volto noto per eccesso di tutela — o stiamo delegando troppo alle macchine il potere di convalidare l’umanità?




