L’ opinione: siamo sicuri che la maturità vada celebrata come una laurea? La Generazione Z e la nuova ossessione per i micro-traguardi

Centinaia di post su Instagram, caroselli con i voti finali, bouquet più grandi di quelli da sposa, party con dj set, fotografi professionisti, abiti da gala affittati su app di lusso, e addirittura tatuaggi commemorativi con la data dell’esame. No, non stiamo parlando di una laurea. E neanche di un matrimonio. È l’esame di maturità, che da qualche anno a questa parte è diventato – complice la regia social – uno show a tutti gli effetti.

Una volta bastava una pizza tra amici, una corsa in motorino al mare, magari un bagno nella fontana del paese. Oggi, a guardare le celebrazioni della Generazione Z, sembra quasi di assistere all’arrivo di una star a Cannes. Con l’unica differenza che i festeggiati, spesso, non sanno nemmeno ancora cosa vogliono fare “da grandi”.

Certo, l’esame di Stato è un rito di passaggio importante, il primo grande confronto con se stessi. Ma siamo sicuri che vada celebrato con l’enfasi di una laurea in medicina o di un concorso vinto dopo anni di sacrifici? Siamo davvero convinti che ogni tappa vada trasformata in un evento virale, con le scritte “finalmente maturi” in palloncini dorati e torte a tre piani che neanche Chiara Ferragni al battesimo della figlia?

“A livello psicologico, enfatizzare troppo ogni singola tappa può generare un meccanismo perverso di gratificazione immediata,” spiega la psicologa italiana Daria Casari, specializzata in psicologia dell’adolescenza. “Si rischia di perdere il senso del percorso, del progresso graduale. Premiare ogni piccolo step come se fosse un traguardo definitivo non aiuta a costruire adulti resilienti. È un po’ come applaudire un aereo quando atterra: ha semplicemente fatto quello per cui è stato progettato. Nulla di più, nulla di meno.”

Ecco, forse la maturità è proprio questo: fare il proprio dovere. Né più, né meno.
Ma nella cultura iperconnessa dei social, dove ogni gesto è un contenuto da monetizzare emotivamente, anche il minimo sforzo scolastico si trasforma in un evento epico da celebrare come la vittoria agli Oscar.

C’è qualcosa di profondamente generazionale in tutto questo. I nati tra il 2000 e il 2010 sono cresciuti con la narrativa dell’empowerment, dell’unicità, del “bravo per esserci semplicemente stato”. Un’educazione gentile, certo, ma forse anche un po’ troppo indulgente, che confonde spesso la tappa con l’arrivo.

“Stiamo assistendo a un’epidemia di autocompiacimento”, continua la dottoressa Casari. “Ogni traguardo viene alzato a vittoria, ogni risultato diventa ‘epico’, ‘incredibile’, ‘memorabile’. Ma la vita adulta non funziona così. E quando la frustrazione arriverà – perché arriverà – sarà ancora più difficile da gestire.”

Forse bisognerebbe cominciare a distinguere tra ciò che è meritevole di celebrazione e ciò che è semplicemente parte della crescita. Tra l’atterraggio sicuro di un aereo e un miracolo in alta quota. Non tutto merita un post, non tutto merita un party, non tutto merita un applauso.

Festeggiare va bene, certo. Ma farlo con equilibrio, senza perdere il senso del reale, è oggi un atto rivoluzionario. Perché crescere, in fondo, non è collezionare feste.
Crescere è imparare a camminare da soli, anche senza fuochi d’artificio.
E, qualche volta, atterrare in silenzio.

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Appassionato di tecnologia ed insegnante di matematica. Crede che la vita sia un'equazione binaria. Si occupa di sostenibilità ed immagina un futuro ad emissioni zero.