Una volta il mare era silenzio, sabbia bollente sotto i piedi, profumo di salsedine e pineta. Era un romanzo letto sotto l’ombrellone, il suono delle onde a far da sottofondo ai pensieri. C’erano i bagni con le cabine di legno, le partite a racchettoni con le regole non scritte (“niente schiacciate”), e la musica si sentiva, al massimo, dal juke-box del baretto all’ingresso dello stabilimento.
Oggi, a giudicare da cosa succede in molte spiagge italiane, se il mare potesse parlare, ci direbbe semplicemente: basta.
Gallipoli, Rimini, Versilia: il caos (mascherato da vacanza)
C’è Gallipoli, regina delle estati salentine, dove il mare cristallino convive con file di barchini a noleggio che scaricano casse, prosecco e DJ-set improvvisati tra le onde. A Baia Verde, ormai, la colonna sonora non è quella delle cicale ma del reggaeton che rimbomba dalle casse bluetooth. Non ci sono più pause. La spiaggia è diventata un festival a ingresso gratuito, e poco importa se qualcuno, nel frattempo, vorrebbe solo farsi un bagno in pace.
Poi c’è Rimini, simbolo del turismo balneare italiano, dove ogni centimetro quadrato è organizzato, numerato, affittabile. La movida è cultura, certo. Ma tra beach club, aperitivi senza fine e palchi montati sulla sabbia, l’Adriatico è diventato un enorme palco dove il mare è solo uno sfondo.
E ancora, la Versilia, terra di tramonti rosa e stabilimenti eleganti, dove anche lì la musica è dappertutto: nei privè a bordo spiaggia, nei cocktail bar aperti dalle 10 del mattino, nei pranzi di gruppo che finiscono al tramonto. La raffinatezza non è più silenziosa: è ostentata, amplificata, instagrammata.
Il mare non è nostro. È solo in prestito.
Questa trasformazione non riguarda solo i luoghi. È un cambio di mentalità.
Perché oggi molti confondono libertà con prepotenza, vacanza con occupazione, mare con proprietà personale. Ci si appropria dello spazio – sonoro, visivo, fisico – come se fosse tutto nostro.
Si piantano gazebo e tende come in un campeggio abusivo, si balla in cerchio sul bagnasciuga con lo speaker acceso al massimo, si fuma, si urla, si mangia e si lascia tutto lì, come se qualcuno – il mare, forse – dovesse poi pulire.
Ma il mare non è un palco. Il mare non è un locale all’aperto. Il mare non è lì per te, è lì anche nonostante te.
Se ami il mare, taci. E ascolta.
Ci sarà chi leggerà queste parole e dirà che sono moralismi da radical chic. Ma non si tratta di nostalgia o snobismo. Si tratta di rispetto. E il rispetto ha a che fare con il limite, con il saper lasciare spazio anche agli altri, con il capire che la libertà non è mai urlata, ma sussurrata.
La vera sfida dell’estate 2025 non è trovare lo stabilimento più trendy.
La sfida è trovare una spiaggia dove si sentano le onde. Solo le onde.
Perché il vero lusso oggi è il silenzio.
Il vero gesto rivoluzionario è non postare niente, non dire niente, non portare casse da 100 decibel, ma solo esserci, in punta di piedi.
E se dici davvero di amare il mare, inizia ad ascoltarlo. Lui non ha bisogno della tua colonna sonora.
Ne ha già una, da milioni di anni.