Il cane, i like e i neuroni: Sonia Bruganelli risponde agli haters e scatta la polemica

C’è chi sui social cerca approvazione, chi condivide per amore, e chi—come Sonia Bruganelli—usa l’ironia come strumento di autodifesa e di liberazione. Non è nuova a post che dividono, né si preoccupa di piacere a tutti: la sua cifra è sempre stata quella della franchezza affilata, anche quando questa le è costata un’ondata di commenti tossici.

L’ultimo episodio nasce da una foto, apparentemente innocente, in cui compariva Beppe, il suo cane. Ma per qualcuno, evidentemente, non era solo un cane. Era un pretesto. L’accusa? Quella di aver pubblicato uno scatto “acchiappalike”, sfruttando l’immagine del proprio animale domestico per racimolare consensi. E, come se non bastasse, l’aggiunta moralista: “Non puoi chiamarlo figlio, i figli sono fatti di carne e ossa”.

Sonia legge, incassa, e risponde. Ma non lo fa con toni concitati o con un lungo sfogo. Lo fa come sa fare lei: con sarcasmo, stile e una punta di veleno.

“Visto che qualche mente illuminata ha pensato bene di sottolineare che la mia foto nel post precedente era ‘acchiappalike’ e che stessi per questo sfruttando l’immagine del mio cane, che non posso considerare figlio perché i figli sono fatti di carne ed ossa… Beppe ha deciso di non mostrare più il suo volto alla camera.”

Il tono è ironico, ma il messaggio è netto: ognuno ha il diritto di definire i propri affetti come vuole. E che quell’affetto abbia quattro zampe non lo rende meno autentico.

Poi arriva la stoccata finale, quella che lascia il segno più di ogni altra parola:

“Se vi cadesse l’occhio sul libro, provate a leggere. Vedi mai che vi venisse voglia di utilizzare in altro modo i vostri neuroni.”

È un invito travestito da schiaffo. O forse uno schiaffo travestito da invito. Di certo è un messaggio per chi spende il proprio tempo a giudicare, a contare i like degli altri, a pontificare sull’uso delle parole e degli affetti, anziché occuparsi del proprio linguaggio emotivo.

Bruganelli non cerca la rissa, ma nemmeno l’approvazione. Quello che cerca, forse, è solo un po’ più di silenzio da parte di chi ha perso il senso della misura e pretende di definire cosa sia giusto amare, mostrare, raccontare.

In un’epoca in cui ogni contenuto viene vivisezionato, ogni parola pesata e ogni foto interpretata come strategia, forse la vera rivoluzione è questa: essere sé stessi senza chiedere il permesso. Anche se vuol dire chiamare “figlio” un cane. Anche se fa arricciare il naso a chi vive di giudizi non richiesti. Anche se non acchiappa like, ma solo coscienze.

Perché alla fine, come suggerisce Sonia con la leggerezza che la contraddistingue, l’unico algoritmo che conta davvero è quello del cervello. E quello, purtroppo, non si compra. Ma si può ancora allenare. Magari iniziando da un libro.

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