Elodie conquista San Siro: pop, potere e provocazione in uno show che riscrive le regole. Ecco il racconto completo

Alle 21:01, lo stadio Meazza – quello che tutti continuano a chiamare San Siro – smette di essere cemento e gradinate. Diventa un corpo vivo, sudato, pulsante. Come il battito in levare che apre Tribale, prima canzone della serata. Il palco – imponente, liquido – è tagliato da una lingua d’acqua, e da lì emerge Elodie, sirena metropolitana, ninfa sensuale, regina della scena.

È un’immersione rituale, un battesimo pop. Non c’è un’introduzione, non serve: lo sguardo della folla è catturato. Poi tutto si spegne per un istante. Silenzio. Le luci del megaschermo si accendono sugli occhi di Elodie. Giganti. Ipnotici. Lo sguardo che precede la trasformazione.

Quando riappare, danzando come una dea urbana, il pubblico è già suo. Il maxischermo la accompagna: Galattica, Magnetica, Erotica, Audace. Le parole non sono solo slogan: sono definizioni. Manifesti. Identità. Con Locura il ritmo diventa afrobeat, il sudore una seconda pelle. Elodie si muove come chi sa di essere desiderata e inarrivabile allo stesso tempo.

Cambio scena. Una tuta leopardata, una frusta tra le mani, e l’energia dominante di Mi ami o mi odi inonda lo stadio. È la versione più selvaggia di Elodie: predatoriale, libera, inaccessibile. Poi, in una svolta teatrale, appare una croce metallica: l’immaginario si fa “madonnaro”, dichiaratamente ispirato al pop sacrilego e rivoluzionario di Confessions on a Dance Floor di Madonna. Un incrocio perfetto tra pop culture, religione e desiderio.

Il pubblico esplode con la hit OK Respira, che non è solo un brano da classifica ma un vero e proprio mantra per chi l’ha seguita nel suo percorso di emancipazione artistica e personale. Ma è nel segmento successivo che il concerto cambia forma e profondità.

Sulle note della struggente Folle città, Elodie si fa da parte e lascia spazio all’inaspettato: Achille Lauro. L’artista romano, in velluto e sfrontatezza, canta con lei Rolls Royce, trasformando San Siro in un festival glam-rock. Ma la vertigine non finisce qui.

Dopo un secondo di buio, un’altra leggenda sale sul palco: Gianna Nannini. È un’esplosione. Con America, le due voci si fondono come due fuochi che non si spezzano. Il pubblico canta, salta, si abbandona. Le generazioni si stringono.

Poi, come un respiro lungo e spaziale, inizia il secondo atto: Galactica.

Una narrazione visiva racconta il percorso di transizione di Ambrosia, una modella transgender che si muove in scena insieme a Elodie in un numero di danza sulle note di Andromeda. È un momento di empatia, arte e politica. Elodie non fa proclami: fa gesti. Si erge a paladina dei diritti LGBTQ+, ma lo fa con la poesia dei corpi che si incontrano e parlano senza parole.

Su Vertigine, migliaia di telefoni illuminano San Siro: un firmamento umano che sembra voler abbracciare quel momento. A seguire, ecco la visionaria Nina Kraviz, DJ e produttrice russa, per un momento di pura trance psichedelica. Le luci si fanno acide, il beat ipnotico, Elodie si lascia andare in una spirale ipnotica. Una comunione tra clubbing e pop, tra underground e mainstream.

Poi tutto si ferma. Si cambia registro. Sullo schermo, un testo apre il terzo atto, intitolato Erotica:

“Il sangue corre veloce. Il vetro diventa tenda. Non sto aspettando nessuno. Non sono da messa. Non sono invito. Non spiego. Non giustifico. Sono qui. Senza pudore. Senza tregua.”

Parte Popporno, e San Siro diventa un night club d’élite, un universo dove il desiderio non è mai colpa. Poi Red Light, e infine Strobo – canzone cult, quasi mai eseguita dal vivo – che accende delirio puro. Una gabbia al centro del palco diventa contenitore di una danza sensuale, ipnotica, potentemente consapevole.

Infine, l’ultimo atto. Quello del cuore. Della verità. Il brano che l’ha lanciata: Solo colpa mia. E con lui, un’introspezione lucida e struggente:

“A volte scappo. Mi sento che gira tutto attorno. Esisto. Non sono io a chiamare, è il mondo che si avvicina… il tempo rallenta, come se aspettasse anche lui.”

Elodie si emoziona, ha un piccolo problema tecnico e si scusa: “Spero di non aver cantato male.” Ma il pubblico esplode. È tutto perfetto, perché è vero. Si prosegue con Due, e la tensione si scioglie in un abbraccio collettivo.

Le parole finali appaiono ancora sullo schermo:
Magnetica. Erotica. Galattica. Audace.
Sono le quattro anime di Elodie. Le ha indossate tutte. Senza paura.

E ancora una sorpresa: sul palco arriva Gaia, che con Ciclone trasforma San Siro in una balera spagnola, piena di ritmo e ironia. Poi Chiamo io, chiami tu, e la voce si fa morbida, notturna. Gaia guarda Elodie, si emoziona e urla:
“È il tuo stadio!”

E in quell’istante, tutto si ferma davvero.

Elodie ha fatto molto più che tenere il palco: lo ha dominato, riscritto, ribaltato. Ha cantato, sì. Ma ha anche danzato, rivendicato, emozionato, sedotto. Ha parlato con il corpo, con i visual, con la musica e con le assenze.

In un’epoca di filtri, l’ex stella di Amici è venuta a prendersi il suo posto. E ha dimostrato che il pop può essere arte. Resistenza, Corpo politico e preghiera laica.
La nuova regina del pop italiano non ha più bisogno di dimostrare niente.

San Siro l’ha già incoronata.

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Stefano Germano, laureato presso l'IULM, è un appassionato di TV e cultura moderna e new media è sempre alla ricerca delle storie più intriganti e delle tendenze culturali del momento.