Saper risolvere un’equazione è utile. Saper riconoscere una relazione tossica lo è ancora di più. Eppure, mentre ci affanniamo a riformare programmi scolastici, voti in condotta e test invalsi, ci dimentichiamo dell’unica materia che potrebbe davvero insegnarci a vivere: l’educazione sentimentale.
Non è un’utopia progressista, né un vezzo per anime romantiche. È una necessità. In un Paese in cui ogni tre giorni una donna viene uccisa da un uomo che diceva di amarla, dove il concetto di consenso è ancora confuso e dove l’ansia da prestazione inizia alle medie, parlare di emozioni, affetto, rispetto e desiderio non è superfluo: è urgente. E lo è ancora di più oggi, in un tempo in cui le relazioni passano attraverso uno schermo, le chat sostituiscono gli sguardi, e il corpo dell’altro è spesso percepito come qualcosa da ottenere, non da comprendere.
Educare all’affettività non significa “parlare di sesso”. O meglio: non solo. Significa insegnare a riconoscere le proprie emozioni, a nominare la rabbia senza subirla, a gestire il rifiuto, a costruire relazioni sane, basate sulla reciprocità e sul rispetto. Significa smontare gli stereotipi che ci portiamo dietro dall’infanzia: i maschi forti e le femmine sensibili, il principe che salva e la principessa che aspetta.
È insegnare che l’amore non controlla, non vieta, non umilia. Che la gelosia non è una prova d’amore, ma spesso un segnale di pericolo. Che chiedere il permesso non è debolezza, ma cura. Che piangere non è un errore, e che non esistono emozioni sbagliate: esistono emozioni che non sappiamo nominare perché nessuno ce le ha mai spiegate.
Significa, soprattutto, imparare a stare con l’altro senza annullarsi. A dire “no” senza sentirsi in colpa. A dire “sì” solo quando è davvero un sì, libero, pieno, consapevole. E a riconoscere il momento in cui una relazione non fa più bene, per avere il coraggio di uscirne senza sentirsi sbagliati.
Certo, non basta un’ora alla settimana con un esperto esterno. Serve una rivoluzione culturale. Serve una scuola che sappia accogliere la complessità dell’identità, dei corpi che cambiano, dei cuori che si spezzano. Serve formazione per gli insegnanti, strumenti per i genitori, spazi sicuri per gli studenti. Serve una rete che tenga insieme tutto: dalle fiabe alla biologia, dalla filosofia alla cittadinanza attiva.
E serve il coraggio, finalmente, di dire che l’amore si impara. Che nessuno nasce capace di amare bene. Che ci vogliono parole, esempi, attenzione. Che ci vogliono adulti credibili, capaci di ascoltare senza giudicare, e capaci – quando serve – di fare un passo indietro per lasciare spazio alle emozioni dei più giovani.
Perché l’educazione sentimentale è prevenzione. Della violenza, prima di tutto. Ma anche della solitudine, dell’ansia, della paura di non essere abbastanza. È un antidoto all’ignoranza emotiva, quella che spesso diventa rabbia, chiusura, odio. È un vaccino contro il bullismo, contro le relazioni basate sul potere, contro la dipendenza affettiva che spezza le ali.
La buona notizia è che insegnarlo è possibile. E che quando succede, succede qualcosa di straordinario: ragazzi e ragazze imparano a scegliere, e non solo a essere scelti. A rispettare, e non a dominare. A costruire, e non a distruggere. A vivere relazioni libere, consapevoli, sane.
Forse non ci salverà dal dolore. Ma ci insegnerà almeno a non infliggerlo.
E questa, forse, è la lezione più importante di tutte.