Boom o burnout? Gen Z vs Millennials: chi ha davvero capito come si vive (in maniera resiliente) oggi

La Gen Z lavora per vivere. I Millennials vivono per lavorare. E poi c’è chi cerca ancora di capire se ha fatto bene a iscriversi a un master in business management. Spoiler: probabilmente no.

Benvenuti nel ring generazionale del 2025. Da una parte i Millennials, quelli cresciuti a pane, MSN Messenger e sogni infranti. Dall’altra, la Gen Z, i figli del Reels, del quiet quitting e dell’ironia dark su TikTok. Due generazioni, due crisi economiche, troppe domande esistenziali e un solo meme che li unisce: il burnout. Ma da prospettive molto diverse.

“Loro volevano cambiare il mondo, noi vogliamo solo sopravvivere”

Giulia, 23 anni, lavora in un’agenzia di PR a Milano, ma ha già detto addio alla sindrome da prestazione:

“Mi licenzierò a settembre. Ho già deciso. I miei capi sono tutti millennial, tipo 35-40 anni. Vivono per l’ufficio, hanno il tatuaggio con la deadline sul cuore. Noi Gen Z ci siamo già rotti. Preferisco fare meno soldi ma avere tempo per me. Una volta ho detto ‘no grazie’ a una call alle 19 e mi hanno guardata come se avessi insultato la loro famiglia.”

“Noi ci siamo ammazzati per uno stage. E poi?”

Luca, 36 anni, è social media manager senior, lavora da remoto per un brand di moda e ha appena finito un ciclo di psicoterapia:

“Noi siamo cresciuti con l’idea che dovevi dare tutto per arrivare. Accettare di non essere pagato, fare dieci cose insieme, essere ‘proattivo’. Abbiamo sacrificato tutto. E ora ci accusano di essere tossici. Ma la verità è che abbiamo imparato a lavorare nel panico. Loro no. Loro sono più lucidi, più cinici, forse anche più intelligenti.”

I Millennial romantici, la Gen Z distaccata

La differenza più netta? Il modo di vivere le emozioni. I Millennials credono ancora nell’amore (quello vero, magari con una colonna sonora di Bon Iver), nel lavoro con “valori” e nel significato delle parole tipo “progetto”. La Gen Z vive in una serie continua di soft ghosting, passion economy e job hopping.

Marco, 25 anni, UX designer:

“Non esistono più i lavori per la vita. E nemmeno le relazioni per la vita. L’idea è: prova, sbaglia, cambia. Se non ti piace, vai via. Non mi sento in colpa per questo. I millennial invece si colpevolizzano per tutto.”

Social, soldi e terapia: un triangolo generazionale

  • Millennials: Instagram, brunch, psicologi.
  • Gen Z: TikTok, microdosing, contenuti effimeri.

Nel mezzo? Un vuoto di senso che entrambe le generazioni cercano di riempire a modo loro. I primi con una corsa alla produttività tossica, i secondi con un disimpegno programmato e una preferenza netta per l’autotune emotivo.

Secondo uno studio di Deloitte, l’86% dei Gen Z valuta la salute mentale come priorità. I Millennials sono più inclini a “resistere”, anche quando dovrebbero mollare. Uno scenario che racconta due filosofie: quella della performance a tutti i costi contro quella del benessere prima di tutto.

Chi ha ragione?

Spoiler: nessuno. O forse entrambi. I Millennials hanno aperto la strada (e si sono spaccati la schiena), la Gen Z la sta percorrendo in monopattino, col badge digitale e una playlist di girl in red.

Forse l’unica certezza è che entrambi hanno smesso di credere che ci sia una strada giusta. E hanno iniziato, ognuno a modo suo, a costruirsi la propria.

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