Arnaldo Pomodoro era l’uomo che spaccava le sfere per mostrarci il cuore del mondo

Se ne va un gigante. Restano le sue ferite d’oro, le sue geometrie disobbedienti, la sua Milano. Le cinque cose che ricorderemo per sempre di lui.


Era nato nel 1926, ma scolpiva come se il tempo non esistesse. Lo faceva a colpi di scalpello, ma anche di visione. Arnaldo Pomodoro non era solo uno scultore. Era un architetto del mistero, un poeta della materia. Ora che ci ha lasciati, proprio alla vigilia del suo novantanovesimo compleanno, Milano – la città che lo aveva adottato e che lo aveva elevato a suo profeta – trattiene il respiro. Perché con lui se ne va l’ultimo di una stirpe rara: quella degli artisti che non imitano il mondo, ma lo rompono per rivelarne l’anima.

Ecco cosa non dimenticheremo mai di lui.


1. Quelle Sfere che sembravano perfette, ma poi si aprivano come ferite

Erano lucide, levigate, solenni. Sembravano uscite da un sogno cosmico. Ma bastava un passo, uno sguardo più attento, e ti accorgevi che no, quelle sfere non erano intere: erano spaccate, intaccate, ferite da dentro. È lì che viveva la potenza del suo gesto artistico. Pomodoro non voleva la perfezione: voleva la verità. Voleva il contrasto tra la superficie e l’interiorità, tra l’illusione dell’ordine e la sostanza del caos.

Le abbiamo viste davanti alla Farnesina, al Palazzo dell’ONU, a Dublino, nei cortili silenziosi dei musei, ma anche nei centri nervosi delle metropoli. Le sue Sfere erano mappe emotive, monumenti alla nostra imperfezione sublime.


2. Il Labirinto segreto nel cuore di Milano

C’è un luogo in cui Arnaldo Pomodoro ha nascosto la sua voce più profonda. Non è in una piazza, né in una cattedrale. È sotto terra, all’interno della sede Fendi di via Solari. Si chiama semplicemente Labirinto. È un’opera fatta di muri e oscurità, di bronzi incisi, di luce che filtra tagliente.

Un percorso che non ha centro e non ha uscita, ma solo domande. Come la vita. Come l’arte. Pomodoro lo pensava come un viaggio: tra il mito e l’ossessione, tra il segno e l’enigma. Un’opera da percorrere in silenzio, lasciandosi disorientare. Perché perdersi, a volte, è l’unico modo per ritrovarsi.


3. La scena teatrale, che non era un palco ma un’estensione del sogno

Pochi lo ricordano, ma Arnaldo Pomodoro è stato anche uno scenografo straordinario. Ha firmato le scenografie per opere di Wagner, Verdi, persino per il Prometeo di Luigi Nono. Non disegnava sfondi, creava mondi. Ogni sipario, ogni superficie, ogni colonna diventava scultura. Teatro come esperienza immersiva, drammaturgia tridimensionale.

Perché l’arte, per lui, non era mai solo da guardare: era da attraversare, da abitare, da sfiorare con le mani. O con il cuore.


4. La sua Milano, complice e custode

Nonostante le origini romagnole, Pomodoro era milanese d’adozione, per scelta e per amore. Milano lo aveva accolto negli anni Cinquanta, quando era ancora un giovane artista con le tasche vuote e i sogni pesanti. Milano lo aveva fatto crescere, e lui aveva restituito tutto con opere che sono diventate punti cardinali della città.

Dal Sole spezzato in Piazzale Cadorna alle installazioni nella sede Rai, ogni bronzo racconta un pezzo della sua storia. E della nostra. E anche adesso che non c’è più, Milano continua a parlarci con la sua voce: ruvida, precisa, profonda.


5. La sua arte come resistenza

Pomodoro non ha mai smesso di cercare. Né di sperimentare. Fino all’ultimo giorno, frequentava la sua Fondazione, incontrava studenti, scriveva, progettava. Era ossessionato dal futuro, pur avendo scolpito per decenni l’eternità. Le sue opere erano guerre contro l’indifferenza. Contro il disordine cieco. Contro la superficialità.

“Un artista deve avere coraggio – diceva –. Deve entrare nelle crepe del mondo e metterle in mostra. Con dolcezza. Ma anche con violenza.” E lui lo ha fatto. Sempre.


Ora che se n’è andato, Arnaldo Pomodoro ci lascia un vuoto grande quanto una piazza. Ma ci lascia anche una lingua nuova con cui leggere il mondo: fatta di incisioni, di superfici spaccate, di metalli che respirano.

Non era solo uno scultore. Era un cartografo dell’anima. E il suo bronzo, adesso, è leggenda.

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